Il Festival Focus Jelinek sta portando l’opera della scrittrice premio Nobel austriaca in diverse città dell’Emilia Romagna. Recensione di FaustIn and Out diretto da Fabrizio Arcuri
Una drammaturgia come quella di Samuel Beckett prende il “testo scritto per il teatro”, con tutto ciò che lo riguarda (lingua, suoni, lemmi, significati) e usa su di esso uno speciale sadico strumento che lentamente lo scarnifica, lo svuota della sua potenzialità fondamentale, la direzionalità comunicativa, mentre i personaggi, per quanto disumanizzati, conservano il proprio ruolo.
Ma perché stiamo parlando di Beckett quando nel titolo si nomina Elfriede Jelinek? Perché a volte partire da un opposto aiuta a mettere a fuoco le anomalie e le imprime d’improvviso al primo punto della relazione di una visione.
Così accade che vedendo FaustIn and Out, diretto da Fabrizio Arcuri per Accademia degli Artefatti, Tra un atto e l’altro e Festival Focus Jelinek, il primo dato a saltare agli occhi sia proprio l’anomalia che questo testo – e forse questa autrice – rappresentano nei confronti della “tradizione” della drammaturgia contemporanea europea. Due premi Nobel, assegnati a distanza di trentacinque anni uno dall’altro, rappresentano così due possibili posizioni di tiro verso lo stesso bersaglio: la sostenibilità della realtà. «Jelinek scrive e le parole distruggono le immagini». Così risponde Arcuri intervistato da Lucia Amara nel bel Quaderno Jelinek curato dalla redazione di Altre Velocità. «È una scrittrice che poeticamente lavora contro la visione e quindi contro la seduzione e questo è il suo atto più radicale e più intimamente politico». Arcuri ha sempre interrogato i dispositivi che entrano in rapporto con gli attori generando una corrosione del meccanismo di adesione diretta: nessun interprete si sente comodo a pronunciare le battute di un testo diretto da Arcuri. E dunque nessuno spettatore ad ascoltarle. Si verifica un «distaccamento che fa pensare», lo avrebbe chiamato Martin Crimp, riprendendo Bertolt Brecht. Due autori che non a caso hanno segnato il passo del lavoro degli Artefatti.
In FaustIn and Out la relazione diretta con il Faust di Goethe è resa problematica, mobile ed esplosiva dall’autrice austriaca usando due cellule drammaturgiche e di senso al contempo inequivocabili e incontrollabili: il fatto di cronaca e la visione di panorami sociali occidentali come la massificazione del sistema di profitto e la dittatura finanziaria. Due «enti fondativi», li chiama il regista, di matrice totalmente «fallocratica», il cui rigido funzionamento, oltre a portarsi in grembo la colpa delle discriminazioni di genere, è in grado di schiacciare il senso comune al punto da rendere digeribili rospi di proporzioni gigantesche.
Le tre ore sono divise in tre diversi stili di messinscena: un trittico di monologhi, una scena di gruppo e un monologo “commentato” da azioni di contorno. La vicenda, tristemente nota alle cronache, di una donna segregata per anni in una cantina/bunker costruita dal padre che ha abusato di lei costringendola a sfornare un’intera progenie di figli/nipoti/fratelli nata cresciuta e a volte morta in cattività è raccontata da un ossessivo, impetuoso e terribilmente freddo fiume di coscienza. C’è la madre (Sandra Soncini) che sproloquia sull’identità della donna ridotta a una catena di montaggio di inerzia e compassione, il viscido padre Mefistofele/creatore di Francesca Mazza, la cui voce si distorce quando agita un microfono davanti alla bocca, c’è la figlia (Angela Malfitano), alter ego della Margarete goethiana – e un po’ bulgakoviana.
È poi la volta di un grottesco re-enactment di Affari tuoi (escamotage per mutuare un omologo format austriaco) in cui i pacchi sono allo stesso tempo prodotti della contemporanea industria capitalista e identità proletaria svuotata nella propria ideologia, con Matteo Angius grottesco Mefistofele mascherato alla bell’e meglio e l’ingresso di Marta Dalla Via come paradosso di caso umano che produce l’equazione risultante. Dopo questa esplosione di grande controllo e verve delle tre attrici, nell’ultimo quadro il sommesso grido d’aiuto della vittima viene foderato da pareti di alluminio (montate dal vivo da Arcuri e Angius, accreditati come «in/out»), mentre la madre sfoglia placidamente una rivista di costume.
Una nuvola di fumo rende tutti irraggiungibili nei dettagli e come sopravvissuti a un’esplosione atomica, i pochi oggetti illuminati dai controluce colorati appaiono come il supermercato simbolico (e a-significante) della vacuità del linguaggio. La vis dialettica e didattica che ormai da tempo inquadra i lavori di Arcuri come teatro fortemente politico riesce a muoversi all’interno del complesso discorso linguistico di Jelinek, al colmo della sua corrosività filosofico-religiosa, organizzando il tempo dilatato di questo discorso continuamente anti-etico e anti-estetico in uno spazio amorfo abitato dalla complessità dei riferimenti all’esistenzialismo di Heidegger e alla cultura massmediatica. Quella «televisione che è fuori e dentro», unica finestra sull’esterno eppure specchio del tormento interiore, diviene l’aberrazione ultima del «mondo come volontà e rappresentazione» stilizzato da Schopenhauer, in cui la realtà effettiva si dissolve nelle aporie dell’immaginario contemporaneo.
Solo apparentemente, e a costo di esaurire molto presto le energie di attenzione dello spettatore, Jelinek sembra sparare a zero su tutto e tutti, in verità la sua furia lessicale è una dichiarazione d’amore per la critica al concetto stesso di esistenza. E alla sua sostenibilità. E questa volta sembra aver trovato in questa regia la chiave d’accesso all’unico livello davvero necessario. Quello di una terribile opportunità di tolleranza di fronte a orrori come quelli che ci scorrono davanti, che ci fa tutti complici dello stesso delitto.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
visto all’Arena del Sole, Bologna, gennaio 2015
FAUSTIN AND OUT
sotto sopra dentro fuori il Faust di Goethe
di Elfriede Jelinek
con Angela Malfitano Francesca Mazza Sandra Soncini
e con Matteo Angius e Fabrizio Arcuri
e la partecipazione di Marta Dalla Via
regia Fabrizio Arcuri
traduzione di Elisa Balboni e Marcello Soffritti
produzione Tra un atto e l’altro, Accademia degli Artefatti, Festival Focus Jelinek
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione
e con il sostegno della Regione Emilia-Romagna