Tra le molteplici offerte teatrali, sul Taccuino Critico si appuntano segni di sguardi diversi che rispondono a un’unica necessità: osservare, testimoniare, dar conto dell’espressione pura, del piccolo e grande teatro…
TETRO #batman #leopardi #joker #laing
di Antonio Sinisi e Gabriele Linari
in scena Gabriele Linari
musiche originali Cristiano Urbani
vignette e locandine Martoz
messa in scena Antonio Sinisi
produzione natacha von braun | Teatro LABIT
Batman, Leopardi, Joker, Laing e, non ultimo, Kafka. Cos’ hanno in comune? Tetro, ovvero «un corpo-a-corpo» tra Gabriele Linari e il regista Antonio Sinisi – che ha proposto all’attore, dopo i lavori Lettera al Padre e Ho morto Petrolini, questo nuovo progetto: prima residenza creativa per il 2015 al Teatro Studio Uno. «Tetro Teatro arriva sempre e sempre al buio» e punta un’accecante e violacea luce sulla storia di Joker, basandosi sulla comic novel The Killing Joke di Alan Moore coi disegni di Brian Bolland. «Io e Me non ci siamo mai incontrati» questi i due poli lontani e inavvicinabili, quando c’è l’uno l’altro è assente. La schizofrenia è il risultato del lavoro maniacale compiuto da Linari nel dare vita a un personaggio cubista, racchiudendo in un solo e solitario corpo diverse voci, per spaziare dal fumetto, alla letteratura e alla poesia. Il linguaggio, sia corporeo che verbale, è imprevedibile, sfaccettato e destabilizzante, proprio a un criminale che distrugge, scinde e moltiplica i livelli del suo folle “verbo”. Ma nell’esasperare la pazzia come tratto distintivo di Joker, Linari-Sinisi corrono il rischio di far prevalere lo stereotipo e, a tratti, di oscurare con la sua irrazionalità la comunicazione di una vera e propria invettiva filosofica che poggia su assunti tutt’altro che illogici.
Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri
Teatro Studio Uno – gennaio 2015
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ANTROPOLAROID
di e con Tindaro Granata
scene e costumi Margherita Baldoni, Guido Buganza
rielaborazioni musicali Daniele D’angelo
suoni e luci Matteo Crespi
Andare in scena soli, con pochi oggetti e molte cose da dire. O da raccontare. Portare una storia che proviene da lontano, un lontano geografico ed emotivo. Tindaro Granata arriva per la prima volta a Roma con la forma intera del suo primo spettacolo, Antropolaroid. È arrivato con il suo gilet grigio, la maglia nera lisa e attillata e i pantaloni da cameriere che indossava come divisa proprio la prima volta che, anni fa, trovò lavoro nella capitale. Questa nota ce la consegna lui stesso, rientrando in scena dopo i calorosi applausi di una delle sale del Teatro dell’Orologio. Ed è una nota rassicurante, che sa di miele, che gratifica il pubblico, perfettamente abbinata, nel sapore, al resto dello spettacolo. La storia della famiglia Granata, da tre generazioni incastonata nella stessa nicchia di vicoli e palazzetti di un piccolo borgo della Sicilia profonda e fagocitante, prende la forma di un “cunto” rielaborato (come unico lascito inconsapevole di avi semianalfabeti) e si concluderà con la tanto sospirata fuga verso il “continente”, alla ricerca dello spirito dell’arte. A fuggire è l’ultimo rampollo, il Tindaro Granata che vediamo in scena oggi, omonimo del nonno ma che da quella fiera sicilianità sembra essersi finalmente emancipato. Oppure no? Di certo non del tutto, come non del tutto sembra riuscirci nessun artista che arrivi da quella terra. Rendiamo un sincero tributo alle capacità istrioniche di questo giovane e vitale attore, che ricostruisce interi paesaggi usando solo corpo, gilet, sedia e lenzuolo bianco. Citiamo la sua padronanza del mezzo vocale, la sua simpatia, la sua sincerità. Eppure in una durata e in una scansione drammaturgica non abbastanza severe, in un uso del corpo a volte troppo disordinato, nel persistere di musiche che prescrivono emozioni e in parte anche nel montaggio stesso della storia si nascondono certi cliché che appartengono forse al primo (e dunque non maturo) lavoro di un artista che è già cresciuto. E deve essere certo di potersi permettere di abbandonare il racconto puramente autobiografico per rischiare di più, mettendo l’agio sulla scena al servizio di materie e forme che raccontino, certo, ma che soprattutto parlino allo spettatore, non informandolo su qualcosa ma piuttosto facendolo smarrire.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
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Teatro dell’Orologio – gennaio 2015
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XXX PASOLINI
drammaturgia / regia / scena di Fabio Massimo Franceschelli
interpretazione Francesca La Scala, Carlotta Piraino Alessandro Margari, Alessandro Porcu Matteo Davide
video Riccardo Palladino
produzione Ass. Cult. amnesiA vivacE – Ass. Cult. Figli di Hamm
audio a cura Groovefarm
luci Marco Fumarola
organizzazione Emanuela Cocco
Pasolini mio, Pasolini nostro. Quest’anno, a novembre, saranno quarant’anni di assenza. Eppure, mai stato così presente. La morte ha spolverato l’aura e il poeta che aveva scardinato il mito dall’antichità è diventato mito egli stesso. Pasolini icona, Pasolini profeta (da ricordare il Pasolini Superstar di CK Teatro). In ogni angolo di Roma c’è una crepa che ne ricorda il passaggio. Segno dell’evoluzione o fascino della suggestione? È con gli occhi rapiti che Fabio Massimo Franceschelli ha composto – e ora dirige – questo XXX Pasolini, in scena al Teatro Tordinona di Roma, testo scritto nel 2006 che muove dalle pagine dell’infinitamente non finito Petrolio, non finito perché senza confini, oltre che senza una fine, per abbracciare in una sorta di camminata romana i luoghi e i concetti in cui vivo è il ricordo del poeta. XXX, accanto al nome. La sigla dell’omissione, il nome nascosto, segretato, dalla storia e dalla verità. Il nome più ricordato, istituzione dell’oblio. È questo a muovere Franceschelli, la ricerca di un senso politico divenuto segreto rimosso delle epoche, della continuità storica. Per questo ricorre a Il Capitale di Marx ma poggiato su un tavolo da cucina, all’odiato – da Pasolini – linguaggio televisivo di sketch grotteschi (divertente Francesca La Scala), alla fittizia banalizzazione da bar (Carlotta Piraino parla diretta alla platea), a tutti quei cliché in cui si anima il dissenso di chi, incosciente, agisce la complicità di un assenso. Pasolini diventa nello spettacolo personaggio del proprio libro, viene cioè distorto il suo ambito d’eccellenza – la realtà – per trasferirsi nella letterarizzazione del suo pensiero. Quindi, per analogia con i postulati sostenuti nei suoi scritti, alla dispersione del concetto. Questo contesto è assemblato da Franceschelli con brevi frammenti in sequenza, a costituire il corpo drammaturgico. Ma se il Pasolini-Carlo Valletti-Francheschelli è un solo personaggio, interpretato con intensità da Alessandro Porcu, e questo è il primo “furto” al poeta, per parole dello stesso autore, forse questo non impedisce all’autoreferenzialità di debordare verso l’interno e l’impianto su cui si costituisce l’ideale, il desiderio di portare questa critica come nuovo tassello alla “questione Pasolini”, ha una troppo forte deriva ideologica per funzionare pienamente, riguardi essa la dote dell’autore Pasolini, o sia riferita invece allo stesso teatro dell’autore Franceschelli.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
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Teatro Tordinona TdIX – gennaio 2015