Lehman Trilogy debutterà al Piccolo Teatro di Milano il 29 gennaio con la regia di Luca Ronconi. Ospitiamo qui un’intervista di Katia Ippaso a Stefano Massini già pubblicata sul Garantista
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Nella casa in cui vive, non c’è linea telefonica. E fa freddo. Non sarà il freddo che c’è in Russia, ma non c’è un’altra parola per dirlo, quindi sì, fa freddo. Per un attimo si interrompe la conversazione. «Stavo inseguendo un raggio di sole. Quando arriva il raggio di sole, ecco io cerco di mettermi lì dove è lui». È interessante sapere dove vivono e come vivono gli scrittori. In effetti, già i segni fotografici della sua pagina Facebook lasciavano intendere qualcosa di molto poco fragoroso. Protagonista di questa foto era quasi sempre Brownie, il cane Brownie, che gioca nel verde, o sulla neve. Stefano Massini vive nella campagna toscana, vicino a San Donnino, con la sua compagna Silvia e il cane Brownie. Eppure la sua parola è piena, generosa. Non è certo un tipo umbratile ma, come ci spiegherà, non gli piace perdere tempo con chiacchiere, piccolezze, intrighi, inviti a cena (con delitto: leggi capro espiatorio obbligatorio del discorso). Nonostante questa presentazione, non è uno scrittore di thriller, ma un drammaturgo e anche se in Italia se dici che fai il drammaturgo poi ti chiedono sì, va bene, ma che mestiere fai, in realtà è un lavoro importante per la coscienza critica di un paese. Specialmente se, attraverso la forma drammatica, trovi il modo di parlare dell’Altro, di quello che non sei tu. Qualche anno fa, lo scrittore toscano si è messo in un’impresa titanica: il racconto del crollo dei Lehman Brothers, andando ad indagare nelle loro vite dall’11 settembre del 1844, quando i fratelli Lehman arrivarono dalla Germania in America sulla nave Burgundy e misero su in Alabama un negozio di stoffe, fino al crac del 2008 a New York, (la più grande bancarotta bancaria della storia). Ha studiato un anno e mezzo testi di economia in inglese, ha inventato la sua affascinante architettura distesa su 329 pagine di micro-narrazioni piene di echi sotterranei, ha pubblicato il libro (Lehman Trilogy, Einaudi), che è stato già tradotto in varie lingue e richiesto da diversi teatri europei, e per un anno ha lavorato fianco a fianco con Luca Ronconi, perchè quei personaggi prendessero oggi vita scenica immersi nel bianco su cui scorrono, ogni tanto delle scritte. Cinque ore di spettacolo, un’opera sinfonica (wagneriana, dice Ronconi), che non racconta soltanto il crollo di una delle più grandi imprese finanziarie d’America, ma la caduta degli dèi che hanno peccato di hybris: dal 29 gennaio lo spettacolo, per la regia di Luca Ronconi, è al Piccolo di Milano (con Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio, Massimo De Francovich, nei ruoli principali).
Massini, lei perché scrive? E per chi?
Mi ha colpito molto una cosa che ha detto Ronconi: «Quando scrive, Massini, si mette nella testa dello spettatore». È quello che cerco sempre di fare. Quando vai dentro un ospedale, c’è l’ortopedico che ti cura il ginocchio e c’è il cardiologo che ti cura il cuore. L’ortopedico non contesterebbe mai al cardiologo di appartenere al mondo della medicina. Questa metafora la applico alla scrittura e al teatro. Non oserei mai dire che la mia drammaturgia è giusta e quella di un altro sbagliata. Quello che mi piace è provare a creare dei sistemi, che sono dei testi, attraverso i quali scrivere qualcosa che chi legge o chi vede non deve subire ma deve contribuire a creare. Richiedo una complicità intellettuale da parte del pubblico.
Perché si è dedicato alla drammaturgia e non alla letteratura?
Diciamo che ho sempre avuto una bruciante passione per le cause minoritarie. Il teatro contiene in sé una meravigliosa contraddizione, poiché è il rito laico più antico che esista e, ciononostante, è sempre in pericolo. Questa sua vecchiaia non gli dà nessun salvacondotto ma di secolo in secolo sembra che sia sempre sull’orlo del baratro. Eppure resiste. Il teatro diventa in questo momento una forma d’arte necessaria. Perché ha una tendenza allo zoom monografico, a tutto ciò che fatica a stare nei 140 caratteri di un tweet. E questa contraddizione lo rende simpaticissimo. Il secondo punto è che secondo me il Novecento ha avuto una tendenza molto marcata alla semplificazione. Tutto il trionfo della tecnologia digitale ha mirato a questo obiettivo: rendere la vita più agevole. E noi indubbiamente rispetto ai nostri genitori siamo facilitati: abbiamo il navigatore in macchina, non dobbiamo trovare una cabina telefonica per parlare. E dentro un sistema come questo trovo straordinario che ci sia un unico ambito espressivo del tutto non facilitante: per arrivare a teatro devi uscire, devi parcheggiare, devi esporti al freddo, devi lavorare con la testa, ti puoi ammalare.
In fondo, tutto il lavoro dell’immaginario non ha niente a che fare con la comodità dell’esistenza.
Già. Questa caratteristica ontologica, genetica, questa richiesta di complicazione crea in chi viene a teatro un tipo di disponibilità nei confronti dei suoi contenuti completamente diversa, rispetto alla disponibilità che si può avere nei confronti della televisione, del cinema…
Come sono apparsi i Lehman Brothers come personaggi e come hanno fatto a convincerla a scrivere su di loro?
Se io scendo per strada e sulla mia strada incontro un funerale, non ho nessuna forma di partecipazione emotiva rispetto a quello che sta avvenendo. Invece, se qualcuno mi si accosta e comincia a raccontarmi qualcosa sulla persona che è morta, ci sono alte possibilità perché quella cerimonia funebre cominci ad avere per me un valore diverso. Più la persona mi darà dettagli sulla vita del morto, e più io mi appassionerò a quella vicenda funebre. Ecco, questo è Lehman Trilogy.
Tutti sanno che ad un certo punto è fallita una banca chiamata Lehman Brothers ma nessuno sa che cos’era quella banca. Il mio compito è quello di informare, affinché la cerimonia funebre acquisti un valore completamente diverso. Perché ho scelto Lehman? Perché c’è qualcosa di molto più importante della storia del fallimento di una banca. C’è la storia della fine di un sistema. E questo, da un lato, rende la storia esemplare, paradigmatica, e dall’altra la rende titanica.
La prima parte della trilogia insiste sulla materia. Poi è come se la materia, i corpi, svanissero. La morte della società è annunciata dalla sparizione delle cose, dei tessuti, del cotone, dei bottoni, e degli esseri umani a cui si nega persino un funerale.
Nel passaggio tra Ottocento e Novecento noi abbiamo iniziato un percorso che, prima gradualmente, poi vorticosamente, ha avuto un motivo dominante, ovvero il distacco dalla realtà. Sempre di più i mestieri che avevano a che fare con il maneggiare, il toccare la materia, sono stati considerati dei mestieri degradanti. Lo stesso identico fenomeno è accaduto in Lehman dal punto di vista economico. Partiti da un tipo di concetto ottocentesco della banca che vedeva i soldi come strumento – acquistare e spostare merci che fossero cotone o caffè – si è arrivati al fatto che i soldi diventavano veicolo e fine al tempo stesso. Il meccanismo è diventato patologico e incontrollabile. Il vicepresidente della banca (si chiamava Lawrence Mc Donand), nel momento in cui la Lehman Brothers fallì, rilasciò una intervista in cui disse che nessuno tra i consiglieri d’amministrazione della banca e nel consiglio di presidenza poteva immaginare né sapere quanto e come la banca fosse indebitata.
In una parte del testo, lei usa l’artificio retorico dell’ “I have a dream” di Martin Luther King. Quello che un Lehman arriverà a sognare non è l’uguaglianza tra le razze, quanto l’uguaglianza tra compratori. Si comincia a desiderare una democrazia totalitaria dove il denaro fa da collante e da livellatore («perché tutti abbiamo un portafogli e tutti abbiamo un conto in banca»). Per quanto osceno, c’è sempre un sogno all’opera.
Certo che c’è un sogno. Io ci metterei anche qualcos’altro. Ad un certo punto ad andare in crisi è anche il collegamento tra economia e democrazia. Nel senso che sia il meccanismo su cui si regge il capitalismo del risparmio – quindi su cui poggia l’architrave del sistema bancario di cui il capitalismo è ancella – sia la democrazia rappresentativa, si basano sullo stesso tipo di principio di delega. Ora, il vero gigantesco problema è che durante il dopoguerra si è assistito non soltanto allo sfaldarsi delle ideologie politiche che hanno finito col mettere in crisi tutto il sistema della democrazia rappresentativa, ma si è finito con lo sfaldare anche il sistema di fiducia che c’era tra risparmiatore e banca. Io sapevo che tu banca avresti amministrato bene i miei soldi o almeno, se io fossi venuto a reclamarli, tu me li avresti resi. Ecco, l’aver messo in discussione questo meccanismo, è stato fatale.
Alla base della caduta di questi dèi, c’è anche un delirio d’immortalità. Si nega la fine della vita e si arriverà a negare anche la morte. Si cancella il semplice gesto del buttare la terra dietro le spalle: «i morti ai morti, i vivi ai vivi».
Quando Ray Bradbury scrive “Fahrenheit 451”, siamo nella metà del secolo scorso, immagina un mondo in cui ci saranno delle pasticche che ci vieteranno di essere tristi. Quasi 60 anni dopo il libro di Bradbury, siamo arrivati al paradosso che se il tuo bambino piccolo a scuola è minimamente timido o minimamente agitato, si chiama subito lo psichiatra. Voglio dire, c’è il terrore di tutto ciò che è sentimento, paura, gioia. È molto più comodo far finta di vivere in una gigantesca Gardaland chiamata esistenza…
C’è una struttura classica in tutta questa vicenda. I Lehman violano il limite, peccano di hybris.
E vengono puniti.
Ogni capitolo della Lehman Trilogy ha un titolo in yiddish. Sembra che lei conosca perfettamente la lingua e la cultura ebraica.
È una lunga storia. Quando ero piccolo, la mia famiglia frequentava una famiglia di ebrei sefarditi della comunità di Firenze, e io ho conosciuto il teatro dentro la comunità ebraica della mia città. L’ebraismo è qualcosa che conosco bene da vicino, non l’ho studiato per scrivere Lehman Trilogy. Infatti in molti miei testi c’è il tema dell’ebraismo. Ci sono autori che usano il loro dialetto d’origine, cosa che a me non interessa. Mi interessa utilizzare il teatro come luogo di scambio di informazione sulla contemporaneità. Meno la contemporaneità è contestualizzata geograficamente e più io sono contento. Tutto questo ha a che fare con l’ebraismo. Perché l’ebraismo è per me che sono italiano una cultura “altra”. Qualcuno mi chiede: perché hai scritto del crollo dei Lehman e non hai scritto per esempio del Monte dei Paschi di Siena o del crac Parmalat? È semplice. Nel caso di Lehman la banca è fallita non per la disonestà dei loro amministrazioni, ma per una ragione epocale, tanto che tutt’ora si indaga su come una banca “too big to fail” sia potuta crollare in quel modo. Nel caso del crac Parmalat o quello del Monte dei Paschi è molto diversa la storia: lì c’è qualcuno che ha sottratto i beni della banca a favore dei beni personali. Lì non c’è bisogno del drammaturgo ma della magistratura.
È anche vero che nelle storie di tutti, anche di coloro che ci sembrano i più meschini, c’è una falla, una fragilità, una incrinatura che può prendere una piega tragica.
Sicuramente, ma sarebbe stata tutt’altra storia.
Chi è Luca Ronconi?
Luca Ronconi è il giovane artista più sperimentale che io abbia trovato nella mia appassionata frequentazione del teatro d’avanguardia (dove vedo pullulare tantissimi “giovani vecchi”). Una volta Leo de Beradinis disse: «Avverto il bisogno e il dovere, alla fine di ogni mio spettacolo, di spazzare via tutti i segni che ho usato, e nell’opera successiva ricominciare da zero». Ecco, Luca fa questo. Ogni volta si apre alla disponibilità che l’opera gli chiede. In questo spettacolo, realizza uno spettacolo di 5 ore di spettacolo quasi senza scenografia. Ci sono solo pareti bianche, due movimenti di scena a dir tanto. Ogni tanto passano delle scritte. È l’opposto di quello che lui faceva prima. Solo una testa come la sua può riprogrammare completamente i propri orizzonti temporali e stilistici. Con lui, ho potuto fare veramente il dramaturg, lavorando per mesi fianco a fianco per rimontare, spostare, cercare la cosa giusta.
Mi sembra inequivocabile che – dall’opera su Van Gogh (L’odore assordante del bianco) a Processo a Dio, dal Diario di Anna Frank al testo dedicato ad Anna Politkovskaja – lei abbia scelto la linea del tragico. Cosa la trattiene dalla frequentazione del comico?
È vero che io utilizzo un registro drammatico, ma lo utilizzo in un modo molto ebraico. L’ironia è sempre dietro l’angolo. Detto questo, è vero, personalmente ho una resistenza nei confronti del comico, perché trovo che il rapporto che c’è in Italia con il comico sia irritante. Il carnevale non serve come carnevale in sé, ma serve perché si sa che dopo ci sarà la quaresima. Ecco, specialmente la tv italiana cerca di soffiare sul comico qualcosa che non è liberatorio, ma liberato. Come se fosse sempre e solo carnevale. In Italia, per ridere, si deve sempre cercare lo sberleffo. C’è un’anima che è quella di Franti di De Amicis del libro Cuore che sarebbe molto bello che a una certo punto venisse superata e consegnata alla storia non novecentesca ma ottocentesca.
Che il riso sia oltraggioso lo dimostra anche la vicenda terribile di Charlie Hebdo. Ma la prima copertina dopo la strage portava un elemento nuovo: il motivo del perdono e del pianto. Una diversa pietas. C’è ancora molto da capire su quella storia. Speriamo che nel frattempo non si compiano solo atti che mirano a sorvegliare e punire.
Condivido questa idea. Sulla vicenda generale, penso che sarebbe molto più semplice dire che c’è uno scontro di civiltà ma non è così. Nella Divina Commedia Maometto viene caricaturizzato in un modo che Charlie Hebdo in confronto è una rivista di suore di clausura. E questo avviene nel Trecento. Allora, cosa succede oggi nel 2015? Succede che in una nazione che non a caso è la Francia, una nazione in cui continua sottopelle la lezione di Voltaire, si prende in giro la religione e si compie un massacro. Ma è soltanto il sintomo – che va in coda alle Torri Gemelle – di qualcosa che è molto più grande dello scontro tra culture e religioni. La rete sei social network ha reso possibile il portare a galla una differenza enorme di condizioni di vita. Un ragazzino di dieci anni negli Stati uniti non vive come un suo coetaneo in Pakistan, e questo è stato reso visibile come non era mai successo prima. Karl Marx e Rosa Luxemburg ai temi della fondazione del socialismo parlavano del lotta del popolo sfruttato contro gli sfruttatori. Ora invece è una guerra di liberazione degli schiavi contro gli schiavisti. Soffia un vento che dice qualcosa di molto diverso dalle guerre di religione. Soffia un malanimo, un risentimento, un rancore, ed è dovuto al fatto che i social hanno comunicato questa differenza di posizione e la gente non ci sta più.
Il suo cane è il più fotografato del mondo.
È lui la vera star, l’elemento fondamentale della mia scrittura.
Le è accanto quando scrive?
Brownie è fantastico perché non ha alcuna possibilità di parlare.
Però lei non sembra uno di poche parole.
Mi piace parlare di arte. Ma le dirò una cosa. Io non sopporto la bassezza, l’ipocrisia, tutto ciò che è piccola manovra, soprattutto quando vedo queste caratteristiche nelle persone che si occupano di arte. Ma siccome il 99, 9 per cento delle persone che fanno arte alla fine si rivelano bestie capaci di qualunque meschinità, allora io preferisco una meravigliosa dorata solitudine.
Una solitudine a due, anzi a tre.
Ah sì, certo, non è una solitudine totale. C’è Luisa, che è l’attrice che ha interpretato molti dei miei testi ed è la mia compagna di 14 anni. E con noi Brownie, ma quello già lo conosce.
Com’è la vostra casa?
È una casa tra l’antico e il vecchio. È una casa particolare….Ci fa un freddo boia. E il freddo proprio non lo sopporto. Però è un luogo che amo molto in realtà. Non sopportavo più di vivere in appartamento, a Firenze.
Non ha mai nostalgia del consorzio umano?
Qualche volta avresti anche voglia di andare in ufficio, di vedere tutti i giorni le stesse persone, di ricordarti che il figlio del tuo collega fa il compleanno e fargli una festa. Io fondamentalmente dialogo sempre e solo con me stesso, e qualche volta quel dialogo mi è insopportabile.
Soprattutto quando ti accorgi che tuo peggior nemico è da quelle parti lì e ti accorgi che la tua voce sta prendendo una “certa” piega, una strada distruttiva, e non puoi fermarla, soprattutto non puoi prendertela con nessuno…
Ecco, e a quel punto finisci anche di dialogare. Tutto si ferma. Ma per fortuna non si ferma mai niente. Io sono convinto che il tempo che ci rappresenti come esseri umani non sia il presente né il futuro, ma il passato e finché siamo impegnati a riorganizzare, sistemare il passato, ci sarà sempre il pensiero, la vita attiva.
Katia Ippaso (Storie di Katia)
Questo articolo è apparso su Cronache del Garantista il 24 gennaio 2015. Per gentile concessione
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