Go Down Moses. Ri-vedendo lo spettacolo di Romeo Castellucci, in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma.
Lasciando libero lo sguardo, Romeo Castellucci racconta Mosè, la sua nascita come salvatore predestinato, il suo compito di condottiero religioso e politico e il grande mistero della comunicazione con un’entità che di continuo si manifesta nell’assenza, ma semplicemente non è interessato a farlo in modo chiaro e lineare.
Go Down, Moses ci accoglie in sala con il passeggio morbido di un gruppo di persone in abiti borghesi, un campione di “popolo” che chiacchiera da dietro le pieghe di un sipario bianco; la vista nostra sarà sempre trasfigurata da una parete di velatino che rende tutto soffuso, sfocato, auratico; c’è una terrificante scena di parto in un iperrealistico bagno pubblico sospeso in uno spazio indefinito, un fatto di sangue che pare il primo presagio al celebre Mar Rosso; c’è l’apparizione di un cassonetto dell’immondizia che pare brillare di luce propria; c’è un lungo e freddo interrogatorio a una madre che l’ha trasformato in una culla, gettandovi il proprio neonato. In questo dialogo, in cui le indagini del detective trovano a ostacolo il delirio biblico della donna sotto shock, pare affiorare l’ombra della coscienza di quello che ci accadrà, che avremo in cambio come popolo incapace di liberarci da noi stessi, mentre il ricorrere di un rullo meccanico che ingoia teste di soli capelli dentro un vortice frastornante appare come riferimento all’irrappresentabile, all’oltre-umano.
La risonanza magnetica a cui la donna si sottopone, che è la più attendibile e precisa analisi dei tessuti, si fa porta spazio-temporale per un viaggio a ritroso nella storia umana, richiama quell’Origine del mondo giù fino a una sorta di caverna di Platone che le luci disegnano piano tra pieghe cronologiche primordiali, il grado zero del ciclo biologico e dello spirito comunitario contratti in azioni e istinti basilari tra uomini-scimmia: sonno, risveglio, fame, sacrificio, sesso, morte, sepoltura, nascita. Da quel tunnel così asettico riemerge un corpo trasfigurato, tornato a un presente totale. E ciò che rimane è un SOS, un flebile e lugubre grido di aiuto, che nessun gioco di luce e velatino è in grado di cancellare.
Appare, affiora, sembra. Tutti verbi corretti dal cesello dell’impressione, definizioni spuntate e timide per qualcosa che non ci arriva mai del tutto, comunque mai mai mai attraverso il ragionamento, che invece occorre per descrivere.
Forse non a caso a partire dalla libertà di espressione, in un incontro presentato dal direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi con Castellucci all’indomani del terribile attentato alla redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriva il commento di una non giovane avventrice: con parlata sicura e forbita e terminologia accurata si domandava se sia necessario o meno, perché il teatro si avvicini davvero agli spettatori, produrre una spiegazione dei linguaggi, di tutti quei linguaggi spinti oltre la concezione ottocentesca del teatro e dei suoi mezzi. Discorso non troppo diverso da quello scatenatosi dopo il passaggio dell’uragano Latella sulle pacifiche pianure di De Filippo. Quando passa dallo stesso palco una tale varietà di linguaggi è necessario (o giusto, verrebbe da dire) andare a «spiegare» qualcosa di più? Di certo è giusto e necessario porsi questa questione, in quanto grado zero dell’urgenza prodotta verso un mezzo espressivo come il teatro. Che tuttavia rimane, appunto, un mezzo espressivo e non impressivo, una forza che esplode e comunica segni non obbligati – e magari neppure del tutto aperti – a una comunicazione univoca.
A onor del vero, la poetica e l’estetica di Castellucci hanno da sempre messo questa riflessione in primo piano: «L’artista non è un messaggero, è un viso tra la folla, ha solo il compito di realizzare un appello alla mente e all’intelligenza dello spettatore, un appello misterioso nel quale non sempre bellezza e piacevolezza coincidono. Non è possibile inventare immagini, ma possiamo montarle tra loro all’infinito e così all’infinito problematizzarle». Questa sorta di compito maieutico porta Castellucci a progettare un avvenimento artistico che – Lehmann sarebbe ben contento di veder raffigurate le proprie teorie – allo spettatore lascia solo un’esplosione di segni; in quest’opera complessa che non punta affatto alla sintesi a vincere è (o vorrebbe essere) la libertà dello sguardo, attraverso gli strumenti immediati della sensibilità e, certo, del bagaglio iconografico e culturale dei singoli. E qui torniamo all’inizio del discorso, alla libertà di un linguaggio così aperto, fendente, orizzontale.
Se è facile scrivere e ragionare intorno (e grazie) a quella libertà, difficile è non scivolare da un lato, in una “semplice” amplificazione del proprio sguardo o di quello dell’artista e, dall’altro, in una lezione su come riunire tutti i segnali raccolti dentro una linea chiara. Una tendenza scopre il fianco all’autocelebrazione o all’adesione incontrollata, l’altra alla colpevole sintesi autoritaria, gemella della banalizzazione. Forse occorre formulare (sempre, non solo con Castellucci) un gioco analitico e combinatorio sulla capacità che gli strumenti hanno di funzionare.
L’evidenza che il fatto teatrale si completi con lo sguardo dello spettatore pone su quest’ultimo un accento fondamentale e rende dunque del tutto legittima la domanda della spettatrice, peraltro attenta più al rischio che certi lavori troppo «criptici» allontanino il pubblico invece di avvicinarlo. Come se in quella totale libertà di associazione, che molto deve al pensiero psicanalitico di stampo freudiano, fossero al contempo nascosti una via d’accesso a strati più profondi e gli strumenti per chiudervisi dentro senza lasciar entrare nessun altro se non l’artista. O il critico.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
visto al Teatro Argentina di Roma, gennaio 2015
GO DOWN, MOSES
di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella
assistente alla scenografia Massimiliano Scuto
assistente alla creazione luci Fabiana Piccioli
direzione della costruzione scenica Massimiliano Peyrone
sculture di scena, automazioni, prosthesis Giovanna Amoroso, Istvan Zimmermann
realizzazione dei costumi Laura Dondoli
assistenza alla composizione sonora Asa Horvitz
tecnica di palco Claudio Bellagamba, Michele Loguercio, Filippo Mancini
tecnica del suono Matteo Braglia
tecnica delle luci Danilo Quattrociocchi
produzione Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini
Foto Guido Mencari
prima nazionale
Bella recensione, anche se forse una recensione non è, ma perché mai dovrebbe esserlo! Molto meglio una riflessione che nasce da uno spettacolo, dall’aver incrociato una creazione artistica. Domande importanti. Mi aspettavo di leggere proprio una cosa così, dopo ieri sera, l’apertura di questi interrogativi e problemi. Dunue, grazie.
Commento solo due cose a margine, da non teatrante. Non farei implicare al concetto di espressione una necessaria dimensione comunicativa. Da sempre nel dibattito estetico e semiotico si è distinto, rispetto all’arte, proprio questo (semplificando al massimo): comunicazione O espressione? Direi espressione, bisogno dell’artista di esprimere primariamente a sé (come si suggerisce forse nel finale di questo scritto) un nodo di dubbi, problemi, domande anche vaghissimo ma che ha bisogno di prendere, assumere una forma, per trasformarsi in sensibilità. Poi, ma eventualmente, gettare questa forma lì in un contesto, in uno spazio: ma questo non necessariamente deve produrre una comunicazione, o meglio, non necessariamente deve essere intriso di una volontà di comunicazione. Poi la “comunicazione” (ma non la chiamarei così) inevitabilmente accade. Accade perché siamo per istinto animali semiosici: davanti a un manufatto umano vogliamo capire cos’è, perché, a che fine, è stato fatto – ma a vote la domanda del PERCHé è stato fatto è sbagliata. Nel teatro c’è una cosa in più, un’ambiguità o una potenza in più: il fatto che accada in uno spazio che per storia è invece stato destinato a raccontare, a comunicare nel senso più essenziale e immediato della parola. E’ esattamente questo che porta il pubblico, singoli individui magari, a dire, durante un timido applauso: “ma cosa abbiamo fatto di male?”. C’è una PRETESA comunicativa da parte del pubblico. Ma perché? perché mai? è interessante indagarla, ma credo che essa vada minata, smontata. Certo, dentro un’affermazione così da parte mia c’è tutta la mia idea su cosa mi aspetto sia, o voglio che sia, il teatro oggi. Ma quantomeno sarebbe importante porsi nella possibilità di accogliere questa posizione (e forse è a questo che il pubblico dovrebbe educarsi): la possibilità di andare a vedere l’espressione di un artista, senza dover pretendere di “capire” nulla. Non c’è nulla da capire, c’è solo da pensare.
Che popolo di deboli di immaginazione, di assuefatti allo spettacolo e alle semplificazioni didattiche o deduttive della televisione, che consumatori di merci a buon mercato siamo diventati, che non ci prendiamo più la responsabilità di decifrare, di sognare, di ricostruire, di viaggiare con l’opera d’arte, che non gli diamo la prospettiva dell0’abisso, e cerchiamo qualcuno che spieghi, medi, illustri, ci rassicuri, e chiediamo agli artisti formulette di (piatta) comprensione
Scusa: invece di “deduttive” leggi “seduttive”
Caro Nicola, grazie di aver letto e di aver commentato. Il tema semiotico è stato per me (ovviamente) essenziale nell’immaginare questo articolo. Ed è stato, nel confronto con la redazione e con altri colleghi/studiosi (i/e), molto delicato. Sono perfettamente d’accordo con quel che hai detto tu e ho fatto del mio meglio per esprimerlo attraverso il complesso del discorso, tentando di comprimere in frasi sparse un discorso che è davvero fondamentale e fondativo non solo di questo tipo di teatro, ma di tutto il teatro. E l’ho fatto a partire da una questione sollevata davvero all’incontro, che mi aveva fatto riflettere e cambiato lo sguardo ancor prima di entrare in sala.
La frase in cui più di tutto affrontavo frontalmente questo discorso ha subito varie limature, fino a diventare:
“Quando passa dallo stesso palco una tale varietà di linguaggi è necessario (o giusto, verrebbe da dire) andare a «spiegare» qualcosa di più? Di certo è giusto e necessario porsi questa questione, in quanto grado zero dell’urgenza prodotta verso un mezzo espressivo come il teatro. Che tuttavia rimane, appunto, un mezzo espressivo e non impressivo, una forza che esplode e comunica segni non obbligati – e magari neppure del tutto aperti – a una comunicazione univoca”.
Con “mezzo espressivo e non impressivo” intendevo proprio quello che tu bene approfondivi sulla “pretesa di comunicazione”. Volevo così distinguere tra qualcosa che esplode (l’espressione) e qualcosa che, appunto, imprime (l’impressione), qualcosa che marca, che timbra, che lascia (o forse impone?) un segno univoco. QUello che forse non era chiaro nella mia frase è il valore “neutro” del termine “comunicazione”. Prima avevo messo “informazione” (troppo ambiguo, usato comunemente per l’aggiunta di informazioni a una coscienza, troppo impressivo appunto ed era cmq necessario separare semiotica e semiologia), poi “significato” (stesso problema, avevo bisogno di stare più largo da un punto di vista semiotico). Poi ho pensato che, in fondo, anche di fronte a un’opera complessa in cui non c’è gerarchizzazione dei segni, in cui c’è simultaneità, in cui c’è corporeità che agisce di per sé, non è che tutto questo non sia comunicativo. Lo è in ogni caso. Anche l’espressione pura lo è. Anche se ciò che cogli è l’assenza di senso, o l’assenza di un ordine, anche quella è una presenza. E in fondo fa anche bene il paio con questo discorso (Per me centrale, in questo e altri lavori di Castellucci) della “presenza di un assente”.
Ti ringrazio ancora e a presto
SLG
Caro Massimo, grazie di aver letto e commentato.
Io sono davvero d’accordo con te, mi sembrava che il mio pezzo andasse in quella direzione. Ho solo posto l’accento sul rischio che una totale libertà possa essere molto simile (o resa molto simile dai ragionamenti) a una piccola dittatura. Ma spero sia chiaro che sono d’accordo con ciò che scrivi in questo commento. Aspetto di leggerti.
Sergio
Premetto che non sono nè un critico teatrale nè un prestivocabulatore quindi vi prego di perdonarmi la prosa semplice, diretta e priva di fronzoli.
Venerdi 9 gennaio scorso mia moglie ed io abbiamo assistito alla prima nazionale di “Go down Moses” di Romeo Castellucci.
Prima dello spettacolo ho fatto un piccolo lavoro di ricerca.
Ne ho desunto che al titolo GO DOWN MOSES corrispondono:
– Uno spiritual cantato dagli schiavi neri già nel 1862 durante la guerra di secessione americana.
– Un libro di William Faulkner pubblicato il 25/01/1941
Invano ho aspettato durante tutta la rappresentazione del 9 u.s. un benchè minimo riferimento-collegamento alle suddette opere. Solo due piccoli accenni (quello sulla nascita e quello sull’abbandono), peraltro metaforici, fanno riferimento alla vita del protagonista esortato nel titolo.
Capisco che i giovani abbiano il diritto/dovere di ribellarsi ai padri, che i vecchi debbano essere rottamati, che ci sia bisogno di ‘riformare’, che il linguaggio quotidiano nella sua intrinseca precarietà introduca continuamente nuovi lemmi e ne sopprima altri.
Ma!
Sono trascorsi ormai numerosi millenni da quando abbiamo cessato di esprimerci con gesti e grugniti, da quando abbiamo cominciato ad osservare gli astri, e a scoprire che a Tebe a mezzogiorno del 21 Giugno di ogni anno un bastoncino piantato a terra verticalmente non fà ombra, a meditare sui vantaggi offerti dalla ruota, dal fuoco etc. Certo: non abbiamo saputo rispondere a domande che vengono dal più profondo.
“Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”
Del resto il passato è l’unico TEMPO che ESISTE perchè il presente è fugace e il futuro è nella Mente di Dio, o se preferite del fato.
Così come un pittore postmoderno o contemporaneo è liberissimo di produrre le sue opere scagliando secchiate di vernici varie contro una parete, ma non è altrettanto libero di intitolarne alcuna: “IL GIUDIZIO UNIVERSALE” o “LA GIOCONDA”, così un autore di teatro quando si ripromette di far interpretare, e un capocomico di mettere in scena, un’opeara altrui, ha l’obbligo di rispettare l’originale.
Per certe cose ci sono i teatri d’essai, i teatri d’avanguardia, i metateatri e le formule “… riveduto. …secondo… etc.”
Ovvero: “UOMO AVVISATO…”
Caro Romano,
grazie di aver letto e commentato.
Tuttavia fatico davvero a stare completamente dietro al tuo ragionamento.
Intuisco che la tua critica è rivolta al fatto che Castellucci non ha rispettato le opere omonime a cui pare si sia ispirato.
Due parole due. Lo spiritual Go Down, Moses è, come la maggior parte degli spiritual, derivato dal Gospel, che in inglese significa Vangelo. E dunque prende direttamente spunto dagli episodi dei libri sacri. Il brano in questione parla direttamente di Mosè, del Faraone, della terra d’Egitto e dell’Esodo. E tuttavia già quello in verità usa (come in fondo avviene di consueto nella cultura del sermone protestante) gli episodi dei libri sacri come tramite per la lettura del tempo presente. Gli spiritual si diffondono tra gli schiavi africani deportati negli Stati Uniti come modo per attraversare un periodo storico durissimo e insieme cercare di costruirvi attorno un ragionamento e una coscienza comuni.
Stesso valga per il libro di Faulkner, che “ruba” il titolo allo spiritual stesso per raccontare (in episodi che qualcuno vede come racconti separati, qualcuno come capitoli di quello che a tutti gli effetti è un romanzo) l’America lungo un periodo storicamente e moralmente molto difficile, ancora una volta quello della segregazione razziale. Quindi anche qui, dove compaiono molto spesso personaggi afroamericani, il super-tema di Mosè, del Faraone e dell’Esodo vengono usati come strumenti metaforici. QUesto per dire che anche le opere che citi sono solo “liberamente ispirate” alla vicenda di Mosè, da cui (così come si potrebbe fare da episodi del Baghavad Gita o del Corano) si traggono spunti per ragionare innanzitutto sul presente.
Poi il discorso che segue non lo capisco davvero. Sembra che tu voglia dare una tua versione del “significato” di questo lavoro di Castellucci, che però poi redarguisci rispetto a una eccessiva libertà rispetto al “titolo” con cui presentare un esperimento teatrale.
Azzardando poi (buttando lì, a dire il vero) un suggerimento a relegare certo teatro dentro “teatri d’essai, teatri d’avanguardia, metateatri e formule (sic!)”. Ultima cosa che non capisco, quell’accenno “Capisco che i giovani abbiano il diritto/dovere di ribellarsi ai padri, che i vecchi debbano essere rottamati, che ci sia bisogno di ‘riformare’”. A chi ti riferisci? Chi sono i giovani di cui parli? Chi sono i vecchi da rottamare? Castellucci è un rottamatore? Di chi? Di Faulkner? Della cultura degli schiavi afroamericani? Dei Libri Sacri?
Mi piacerebbe capirci di più.
Un saluto e grazie
Sergio Lo Gatto
Esimio Sergio Lo Gatto
Castellucci non è nuovo a tali imprese.
IL PRECEDENTE, OVVERO: “SE L’AVESSI SAPUTO L’AVREI EVITATO!!!”
(Anche se nel caso seguente non si lucra il vantaggio dell’uso di un titolo passato)
Sul concetto di volto nel figlio di Dio: ovvero il destino dei Padri secondo Romeo Castellucci
di Andrea Pocosgnich 11 ottobre 2010
Andare a vedere uno spettacolo della Socìetas è ormai un evento, non lo si può negare. Con il tutto esaurito e un’aspettativa alle stelle le Officine Marconi hanno prestato il proprio spazio per quest’ultima opera firmata Romeo Castellucci e ospitata dal Romaeuropa Festival. L’aspettativa per i lavori dell’artista romagnolo negli anni è cresciuta implacabilmente, nel 2008 ha diretto Il Festival di Avignone e la trilogia sulla Divina Commedia, in questi giorni proiettata a Villa Medici anche lì con il tutto esaurito, è stata definita da Le Monde come una tra le dieci produzioni culturali più importanti dell’ultimo decennio. La fama, soprattutto quando è internazionale, tra poco inizierà anche un suo laboratorio alla Biennale di Venezia insieme ad altri grandi come Rodrigo Garcia (vai all’articolo), non può far altro che creare una lunga onda di influenza e trasformare l’artista d’avanguardia, il distruttore delle scuole e dei “padri”, in un padre lui stesso.
Ebbene è possibile che Castellucci, forse anche inconsciamente e in parte, si serva di questa performance per scacciare il naturale compiersi del suo destino d’artista? Ovvero il destino di diventare definitivamente un padre-maestro?
Non lo sappiamo, e forse anche lui, come qualunque altro artista, non ce lo svelerebbe. Torniamo allora a quello che si vede nella scena iperrealistica costruita dalla Socìetas negli spazi delle Officine Marconi per questo Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Forse avrei dovuto dire: torniamo a quello che si “sente”. Dato che la soglia di mimèsi a cui approda Castellucci non è solo visiva, ma come vedremo anche olfattiva. Comunque quello che si vede è uno di quei perfetti saloni arredati con il tipico minimalismo del design contemporaneo, sembra di avere davanti una delle aree più alla moda di Ikea, il bianco domina neanche fosse il presagio di un’ospedalizzazione imminente e consolatoria.
Un vecchio uomo è assorto davanti al suo maxischermo casalingo, in testa le cuffie che non riescono a trattenere l’alto volume, ha un accappatoio ed è impassibile sul divano bianchissimo. Dopo qualche attimo entra in scena (“entra in scena”: notate bene come il naturalismo inevitabilmente rischia di portare con sé la sua “ammuffita” struttura linguistica) il figlio del vecchio che si siede al tavolino del soggiorno per dare un’occhiata alle medicine del padre. Dietro il silente quadretto familiare, lontano dallo stereotipo della famiglia allargata (non ci sono mogli o nipoti ad alleviare la sofferenza dei due), campeggia l’enorme proiezione del volto di Cristo di Antonello da Messina. Il calvario comincia senza mezzi termini quando l’uomo fa per uscire di casa e saluta il padre, ma questi lo trattiene a sé con una dissenteria irrefrenabile. L’uomo non fa in tempo a ripulire il vecchio che il liquido marrone nuovamente gli bagna i piedi ed è qui che il ragionamento di Castellucci sul realismo e sulla sua immediata disillusione viene portato alle estreme conseguenze, sul pubblico infatti inizia a spandersi un odore acre neanche avessero aperto decine di latrine sporche. E tra sguardi esterrefatti, nasi coperti e il rischio di un rimescolamento di budella, anche dei sorrisini compaiono sui volti del pubblico dalle grandi aspettative.
Ma è proprio in questo atto crudele (non alla maniera di Artaud, ma più vicino agli estremismi di Antoine) e nel proseguo drammaturgico che la performance abbandona il terreno del realismo fine a sé stesso per divenire quasi un antirealismo che punta al gioco dadaista e al gesto metafisico. Dopo l’ennesimo pannolone sostituito, il vecchio viene fatto adagiare sul proprio letto, la scena naturalistica è ironicamente e definitivamente implosa grazie all’entrata ammiccante proprio di Castellucci che rovescia mezza tanica di putrido liquame sull’anziano padre. Senza pietà il vecchio viene cosparso di merda, questo didascalismo suggellerà anche il finale della performance quando padre e figlio lasceranno la scena e il volto di Cristo verrà sfregiato dall’interno per ferirsi di quello stesso liquido e lasciare il posto alla mastodontica scritta “You are not my shepherd”, “Non sei il mio pastore” . E’ pur vero che il lavoro visto fa parte di un progetto più ampio che vedremo in futuro con il titolo di J., è vero anche che come sempre Castellucci non si nasconde e bisogna riconoscergli il merito di coltivare un’idea sino in fondo, fino a far rivivere olfattivamente lo schifo che si agita mentre una vita non è più, e noi, spalleggiati dalla scienza, mentiamo ricreandola con un simulacro posticcio che in definitiva è un corpo svuotato le cui membra sono abitate da soli liquidi malati; ma il rischio di muoversi sul filo della superficialità, il rischio di lanciare un interrogativo e dargli una risposta troppo frettolosamente chiudendo il pensiero in azioni fin da subito intellegibili, è dietro l’angolo, anche per i maestri.
Andrea Pocosgnich
Visto l’8 ottobre 2010
Officine Marconi – Romaeuropa Festival 2010
Roma
Prossime date:
Dal 24 al 28 Gennaio 2012
Teatro Franco Parenti [stagione 2011/2012]
Milano
17 e 18 Febbraio 2012
ERT, Teatro Testoni [cartellone]
Casalecchio di Reno
SUL CONCETTO DI VOLTO NEL FIGLIO DI DIO. Vol II
Ideazione e regia Romeo Castellucci
…Non cito i commenti dagli ovvii toni…
Pur essendo molto attuale il tema della blasfemia…; nei casi in esame si tratta solo di un brutto riciclo di una certa corrente trasgressiva molto in voga negli anni ’60-’70:
http://it.wikipedia.org/wiki/Cristo_'63
https://www.youtube.com/watch?v=vMLtYiTTgB4
E la brutta copia dei giorni nostri: https://www.youtube.com/watch?v=oAUjICDjKoI
https://www.youtube.com/watch?v=U7ybZdwRVbs
Meditate Castellucci e Lo Gatto
Ossequi Romano
L’opera dell’intellettuale è potentemente seduttiva. Spetta allo “spetta”tore arguire, da un complesso di informazioni, la parziale conclusione. Il procedimento deduttivo, grazie a determinate premesse didattiche, porta a formule schiacciate e rassicuranti, spesso causa di una comprensione o virtù non pura.
Credo che chi voglia comprare dell’aria fritta vada in rosticceria, non al TEATRO.
In quanto alle deiezioni se ne trovano in quantità e qualità industriali ai bagni pubblici.
Quanno ce vò!!!
Caro Sergio, mi fa piacere lasciare un contributo, seppur brevissimo: secondo me, quello di Romeo Castellucci è un teatro intensamente suggestivo, poetico e colto; lo si può certamente analizzare e recensire, tuttavia non credo che debba necessariamente essere “capito”, ritengo piuttosto che lo si possa (e forse lo si debba) “sentire”.
Credo che in rosticceria l’aria fritta sia gratis, in teatro invece l’etere rosolato molti lo pagano profumatamente. Le scariche dal ventre reclamano senza sosta l’imparzialità del catasto.
Di chi è la citazione «L’artista non è un messaggero, è un viso tra la folla, ha solo il compito di realizzare un appello alla mente e all’intelligenza dello spettatore, un appello misterioso nel quale non sempre bellezza e piacevolezza coincidono. Non è possibile inventare immagini, ma possiamo montarle tra loro all’infinito e così all’infinito problematizzarle». ? Catellucci? o Lehmann (?)