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Teatrosofia #4. Recitazione e medicina ippocratica

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro

In questa rubrica, curata dal nostro redattore Enrico Piergiacomi − dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento − ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno.

ippocrate
foto www.casarangoni.it

Chi accoglie l’antico Giuramento di Ippocrate dovrebbe accettare anche le prescrizioni contenute nelle Leggi, che impongono di imparare il mestiere solo se si è propensi per natura e di cominciare a praticarlo solo dopo essersi adeguatamente preparati. Se non si rispetta questo semplice imperativo morale si usurperà il nome di “medico” senza incarnare di fatto quella figura e si danneggerà l’arte della medicina, gettandole discredito e infamia. Per introdurre un simile concetto, l’autore delle Leggi apre il suo trattato con una metafora dell’attore. Come non è tale l’uomo che assuma aspetto, maschera e veste tragica, ma fa il personaggio muto sulla scena, così non è medico chi vada di città in città fregiandosi del proprio nome, ma non sa curare affatto pazienti.
Non è la prima né unica volta in cui l’attore viene evocato dai medici di ispirazione ippocratica per costruire la loro deontologia professionale. Infatti, da un lato l’autore dei libri Sul regime citò la sua arte per mostrare che essa (come tante altre arti) imita la natura dell’uomo, pertanto che anche la medicina è un’arte degna di essere esercitata, appunto perché non è altro che imitazione delle affezioni che si osservano nell’uomo. Dall’altro, Galeno impiegò l’attore come una metafora del buon studioso degli scritti medici, che “interpreta” bene Ippocrate usando i principi di Ippocrate, o Asclepiade quelli di Asclepiade, al pari di chi ben “recita” il personaggio di Elettra assumendo il carattere di Elettra, o il personaggio di Agamennone assumendo il carattere di Agamennone.
Tutto questo non ci dice nulla di più sul teatro. Anzi, può portare a fraintenderne la natura, perché almeno l’autore del Sul regime lo confonde con l’arte dell’ipocrisia e della dissimulazione. Tuttavia, il comportamento dei medici ippocratici offre lo spunto per un positivo rovesciamento, ossia consente di costruire la deontologia teatrale sulla scia di quella medica. Come il bravo medico deve acquisire strumenti e conoscenze per curare il corpo, così il bravo attore deve apprendere come invocare forze in grado di lenire l’anima.
Alla luce di tale ipotesi, si capisce forse ancora di più perché i potenti siano così avversi al teatro. Se essi ci vogliono infatti fragili e malati nell’anima per renderci obbedienti ai loro piani, come non potranno essere ostili a un’arte che offre forza e salute psichica?

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Essi sono infatti assai simili ai personaggi muti che compaiono nelle tragedie: giacché al pari di quelli hanno aspetto e veste e maschera d’attore, ma attori non sono; e similmente i medici, di nome molti, ma di fatto ben pochi ([Ippocrate], Leggi, cap. 1; trad. di M. Vegetti)

L’arte dell’attore inganna coloro che sanno. Essi [scil. gli attori] dicono una cosa e ne pensano un’altra, entrano in scena come una persona ed escono di scena come un’altra persona. Anche un uomo può dire una cosa ma farne un’altra, essere lo stesso e non lo stesso, avere ora un intendimento e ora un altro. Sicché, tutte le arti hanno qualcosa in comune con la natura dell’uomo ([Ippocrate], Sul regime, libro I, § 24; trad. mia)

Almeno su questi principi, anche i seguaci di Lico e di Quinto, che hanno interpretato un libro di Ippocrate, provano a condurre ogni cosa nel modo corretto, al pari degli attori che conservano la recitazione appropriata al personaggio che interpretano in un dramma. […] E forse è meglio concordare con Lico sul fatto che colui che erra in queste cose è come un falso seguace di Ippocrate, soprattutto se da questi è disprezzato lo scrivere esegesi corrette, che è come per un attore non poter recitare. Infatti, chi tenta questo è simile a colui che non può recitare nella commedia e nella tragedia. […] Inoltre anche alcuni tra i medici empirici, come dissi, interpretano un libro di Ippocrate da Ippocratici, come l’attore che recita in un dramma il personaggio, per cui anche uno della scuola di Erasistrato, di Erofilo, di Asclepiade e di altri medici deve interpretare ciascuno secondo i principi propri della sua scuola (Galeno, Commentario al terzo libro delle “Epidemie” di Ippocrate, vol. 17a, pp. 506-507 e 515 Kühn; trad. mia)

[Una buona raccolta dei principali testi di Ippocrate e dei medici di ispirazione ippocratica sono consultabili in un’ottima resa italiana presso M. Vegetti, Opere di Ippocrate, Torino, UTET 1965. Per il Sul regime, si veda il commento con traduzione di A. Lodispoto, Ippocrate. Del regime salutare, Roma, E. Cossidente 1960. Non esiste ancora una resa anche parziale in una qualsiasi lingua moderna del commentario di Galeno]

Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo

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3 COMMENTS

  1. Certo anche tra gli attori ci sono i medici e i ciarlatani, ma siccome non abbiamo giuramenti da tradire, ci facciamo cerusici: il più delle volte affondiamo bisturi senza saper che pesci prendere!
    C. M.

  2. 1- Il significato della parola “ipocrita”, al tempo, aveva la stessa accezione odierna?
    Sospetto di no.

    2- Nell’articolo si parla di “anima”, ma nell’antica grecia questa parola non esisteva perchè essa non era scissa dal corpo.

    Come mai?

  3. Caro Cristiano,

    grazie per il commento. Rispondo alle tue domande e scusa se lo faccio solo ora. Non mi ero accorto subito del tuo messaggio perché ero in viaggio.
    Sulla prima questione, mi permetto di rinviarti al primo appuntamento della rubrica, per dirti che hai ragione a dire che “ipocrita” non aveva allora l’accezione corrente, significando piuttosto “colui che risponde”. La parola assumerà il significato di “ipocrita” dal III secolo a.C., per ragioni che mi sono ignote (ci vorrebbe un supplemento d’indagine): https://www.teatroecritica.net/2014/11/teatrosofia_1-la-parola-attore/
    Con la seconda, sollevi invece un problema enorme, che temo di non riuscire a risolvere in poche battute. Però devo cominciare con un correttivo. La parola “anima” (psyche) esisteva eccome, anche se designerà in effetti un’entità ontologicamente e logicamente distinta dal corpo dal V secolo a.C., perché in genere si fa risalire una prima consapevolezza concettuale di essa a Socrate. Sai bene che questi affermava che è dovere di ogni uomo “conoscere sé stesso”, che per essere un po’ banali significa in fondo conoscere la propria anima. (Cfr. soprattutto l’Alcibiade primo di Platone, tenendo però conto che il dialogo contiene forse un’interpolazione neoplatonica, laddove descrive l’idea che uno comprende il proprio “io” specchiandosi negli occhi dell’altro). Si tratta naturalmente di una semplificazione storiografica, perché secondo me un’attenzione sull’anima si riscontra già in Eraclito e Democrito.
    Credo che tu alluda alla concezione della persona in Omero, quando scrivi che nell’antica Grecia non si aveva consapevolezza dell’anima perché “non era scissa dal corpo”. Se è così, hai ragione, dato che nei poemi omerici è difficile leggere un’idea della “persona” e “psyche” designa solo il soffio vitale che abbandona l’uomo quando muore. E’ però anche vero che il corrispettivo dell’anima potrebbe essere qui individuata nel “thumos”, che è la causa delle emozioni, delle volizioni e persino dei pensieri. Se invece intendi dire che qualunque greco non aveva questa consapevolezza, l’affermazione mi appare discutibile, perché i pensatori che affermavano l’intreccio di anima e corpo non negavano l’esistenza della prima. Pensa solo a Epicuro, che sostiene che la sensazione non è né del corpo, né dell’anima, ma appunto dell’intreccio delle due cose (Epistola a Erodoto, § 63). Il rilievo non nega l’esistenza dell’entità psichica, visto che lo stesso testo riporta pure che essa è la “causa maggiore” della sensazione, implicando che quella somatica ha un’influenza “minore”.
    Che io sappia, l’unico autore che si sposa perfettamente con quello che scrivi è il peripatetico Dicearco di Messina. Anche qui i termini precisi della dottrina sono controversi, ma quello che è sicuro è che il filosofo affermava che l’anima fosse l’armonia degli elementi del corpo. Alcuni studiosi – e io sono d’accordo con loro – sostengono che questo fosse un modo per dire che la prima fosse solo un “modo d’essere” del secondo. Detto in altri termini, Dicearco negava l’esistenza dell’anima sia dal punto di vista ontologico (perché è appunto armonia degli elementi del corpo), sia da quello logico (se volessimo parlare propriamente, dovremmo ad esempio dire che la persona che soffre per la perdita di una persona cara ha subito, in realtà, un disequilibrio degli umori somatici). Bisogna però notare che la sua concezione destò particolare scandalo negli antichi, e secondo me questa è una prova che l’idea diffusa prevedesse l’esistenza dell’anima in parte indipendente dal corpo.
    Rinnovo i ringraziamenti per il commento e spero che le mie risposte siano sia chiare che soddisfacenti. Un caro saluto,

    Enrico.

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