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Amleto FX. Paolocà alla ricerca dell’infelicità

Gabriele Paolocà rilegge il personaggio del principe di Danimarca in Amleto FX. Recensione

 

amleto paolocà
foto di Manuela Giusto

Da Antigone a Oreste, da Re Lear a Padre Ubu, da Arpagone a Pinocchio, nel panorama della letteratura teatrale sembra esistere in certi personaggi un’attrattiva che va oltre le urgenze dei singoli artisti e compone una sorta di catalizzatore di senso in grado di raccoglierle e organizzarle in una struttura drammaturgica che di fatto sopravvive al passaggio dei tempi. A chiunque frequenti il teatro con una certa assiduità sarà capitato almeno una volta, scorrendo un cartellone, di formulare il pensiero: “Oh no, dai, di nuovo Amleto?”. E ogni volta si ricomincia da capo: specialmente in un momento in cui i bacini di pubblico e addetti ai lavori vivono grazie a reciproche trasfusioni, avviene che la percezione dello spettatore porti con sé un disordinato bagaglio fatto di reminiscenze della trama originale e di una selezione dei tentativi più audaci di sovvertirla.

Gabriele Paolocà lo avevamo già visto e apprezzato, tra gli altri, nella parte di un redivivo Giacomo Puccini nella Bohème di VicoQuartoMazzini e di quello spirito bizzarro, nero e sottilmente decadente qualcosa sopravvive in questo coraggiosissimo Amleto FX, alla prova della lunga tenitura (due settimane, da queste parti, sono un’eternità) al Teatro dell’Orologio di Roma. Nella più piccola delle quattro sale gli spettatori si danno del tu, sono professionisti o appassionati, ma anche perché all’Orologio occorre riconoscere una grande potenza di comunicazione sul territorio. Paolocà, sagomato da un controluce, muove passi lenti in un costume cinquecentesco di velluto scuro, calzino tirato al ginocchio e un paio di logori anfibi; nelle due mani tiene rami spogli, come in un’offerta rituale. La luce gli scopre poi una parruccona bruna tirata in un enorme chignon e il viso truccato pesantemente, gli occhi a mezz’asta carichi di matita nera. Tale immagine grottesca, maschera da clown malinconico, agguerrito e pure distrutto dalle circostanze, sarà il leitmotiv di questa vincente divagazione sul Principe di Danimarca.

amleto paolocà
foto di Manuela Giusto

Incorniciato da un fondale di veneziane su cui è stilizzata a nero la “stanza d’artista” di Van Gogh, con l’aiuto di parrucche e pochi abiti che fanno comparire personaggi in accessi di performance che ricordano Antonio Rezza, accerchiato da oggetti-simbolo come un vaso di terra in cui crescono prosecco e Aperol per riempire un biberon di spritz, l’attore chiude il tutto in un monologo esilarante e sofferto insieme, ora ingobbito su una scrivania, ora volteggiando e urlando e cantando, agitando in mano l’unico comprimario, un MacBook grigio che emette animazioni di teschi, slideshow di colori che danno forma ai fantasmi, anima conversazioni Skype con Gertrude e Claudio in vacanza a Forte dei Marmi, connette chat con Orazio e Ofelia.

Quelli che subisce il nuovo Amleto – emblema di un adolescente tormentato e un po’ demodé, afflitto dalla malinconia e dall’esibizionismo ambiguo à la Kurt Cobain – sono gli “effetti” della castrazione tecnologica. In tempi in cui fin troppi artisti riempiono immagini e parole con riferimenti diretti alla gabbia dei social network, con metafore della “morte per virtualità”, con forsennate apocalissi sociali ancora troppo aderenti al tema per affermarsi in quanto critiche efficaci, il solitario lavoro di Paolocà sorprende per sincerità e risultato. Come già riscontrato nel lavoro – pur diversissimo per essenzialità e distacco – di Valerio Malorni ne L’uomo nel diluvio, si avverte qui una violenta carica d’urgenza: dietro al dispendio di un indubbio agio sulla scena sta la spinta di chi davvero vuole parlare allo spettatore; allora una così frontale eppure creativa e istrionica scommessa si perdonano volentieri alcune timidezze e una certa tendenza alla didascalia. E speriamo che queste parole aiutino ad accordare ai segni scelti la potenza che già possiedono, senza timore che ne servano altri a proteggerli. Avanti su questa strada.

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

dal 21 ottobre al 2 novembre al Teatro dell’Orologio di Roma

AMLETO FX
di e con Gabriele Paolocà
produzione VicoQuartoMazzini, Progetto Goldstein, Teatro dell’Orologio

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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