Vocazione è il nuovo spettacolo di Danio Manfredini. Presentato a Vie Festival 2014 di Modena
Io credo sia arrivato il momento. Dopo un po’ di anni che giri l’Italia per raccontare spettacoli, azioni, variazioni sul tema dell’arte in vita e ritorno. Forse arriva un momento in cui bisogna smettere di scrivere, astenersi dal commentare, godersi soltanto l’eroica ammissione di fallimento che un artista sperimenta per sua essenza, il contrasto estremo tra la volontà e la necessità. Ho visto – io ho visto, ho visto in prima persona – Danio Manfredini sul palco del Teatro delle Passioni di Modena per Vie Festival 2014. L’ho visto e lui non ha visto me. Ciò vuol dire che eravamo in teatro. Tra di noi c’era un patto sottoscritto per essere lì, non ci siamo detti nulla prima di entrare, non abbiamo un accordo ma un’alleanza: lui avrebbe compiuto gesti sul palcoscenico, io li avrei raccolti dalla platea, facendoli per miracolo della compresenza diventare miei. Capito ora, caro il mio critico simonenebbia? Certe cose non si possono raccontare, quando tutto finisce e il sedile ha le corde al bacino, tu non puoi alzarti a ridire fuori, devi lasciarti affondare, non tenere il freno di quel che senti retro agli occhi, dai un bacio alla tua vicina di sedia se ne senti il bisogno, buca la resistenza della convenzioni e rompi quell’argine che avevi prima di entrare. Liberati simonenebbia! Non dimenticare quel che ti accade, per tutte quelle volte che non accade.
E dalla fine, torniamo all’inizio. Perché stavolta voglio proprio riuscire a capire che cos’è questo passaggio virale che fa di un attore un untore di vite altrui. Me di fronte a lui. Lui fa e io non ci credo. Ma quando invece lui è, incarna, allora io credo di essere una sua vertebra contusa, una sua ferita sanguinante. Insomma, credo di essere lui, mi illudo di esistere nel punto dove sta sanguinando. E allora rido, piango, di ciò che di volta in volta sappiamo io e lui diventare. Ridi pagliaccio, canta la voce dall’altoparlante, mentre piange l’attore. Basterebbe questo a disegnare l’atmosfera in cui con tanti spettatori, vicini, sono capitato. Manfredini è in abiti da vecchio, impone il suo volto come un filtro di quella musica, un contrasto di appartenenza. Lui alla musica? Noi a quel fluire di armonia attraverso il suo disarmonico sguardo? C’entra il cuore qui – il suo e il mio. C’entra la dedizione di un uomo che di mestiere presta il corpo al proprio demonio. Frammenti del teatro di sempre, parole di vicende altrui lanciate nell’aria e nella luce di una vicenda che è qui, urgente adesso, nelle viscere di un tramite sospeso.
Danio Manfredini, attore, canta canzoni originali in stereo lungo tutto lo spettacolo e grida «sono adulto, voglio smetterla di mettere vestiti non miei, di mascherarmi», eppure, insieme alla presenza discreta e irrinunciabile di Vincenzo Del Prete, con la maschera svela un volto, in abiti d’altri diviene sé stesso. Uno scherzo? Un gioco del paradosso? Ma non è forse questa l’arte dell’attore? Frasi brevi, ritorni improvvisi ad azioni concrete, il corpo si fa ora risalto ora paralume del fascio luminoso che lo coglie. Nel corpo, nei corpi, ci sono le voci, di Nina e Kostja, l’attrice e lo scrittore, il gabbiano e, forse, l’aria, a gridare in una speranza già tradita «se fosse ancora intatto il nostro teatro», se fosse ancora concreta l’idea volatile, se fosse ancora in volo, nell’aria, il gabbiano… ma, ognuno iniziando nel corpo dell’altro, sono tanti i convitati a questa macabra cena in cui l’attore mangia sé stesso: «io faccio l’attore, ma a chi importa se io ogni sera mi mangio la vita!». Sono tanti eppure uno, assente, è convitato di pietra: Re Lear, l’unica anima cui dare un corpo, l’unico ruolo da interpretare. Quando finalmente arriva, Lear, il vecchio attore dell’inizio sembra tornare giovane, non ride, non piange, ora è Lear, niente altro da ciò che deve essere.
L’ho già detto, non si può dire niente. Si deve esistere. Me lo disse anche Claudio Morganti una volta, quando non lo conoscevo, di fronte al suo Woyzeck sonoro: «butta quella penna, ascolta…». Aveva ragione. Perché il cuore quando batte fa rumore, un attore il suo lo porta in mano come non fosse suo, come fosse mio, quindi proprio come fosse suo.
Due rose, sugli applausi, volano dall’alto fino in proscenio. Gli attori entrano seri a prendersi il tributo, io batto le mani – pesano a colpirsi – batto il cuore tremante… e allora via chi non ha sentimento, fuori da questa sala: questa è una storia d’amore. E di morte. È la storia dell’uomo di Friedrich e del suo scoglio. E del vento, che muove la tempesta e misura la sua fierezza. E di «questo posto – il teatro, l’esistenza che – è una punizione di Dio». E di me, che come un attore, in abiti d’altri, nella sua Vocazione, ho trovato la mia.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
VOCAZIONE
ideazione e regia Danio Manfredini
con Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete
assistente alla regia Vincenzo Del Prete
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti e Massimo Neri
disegno luci Lucia Manghi, Luigi Biondi
collaborazione ai video Stefano Muti
sarta Nuvia Valestri
Produzione La corte ospitale
un ringraziamento a tutti coloro che hanno sostenuto il progetto attraverso la campagna di crowdfunding, in particolare ai “coproduttori” Sotto-Controllo, Elsinor Teatro Stabile di Innovazione, Versiliadanza, Collettivo di Ricerca Teatrale – Vittorio Veneto
Grazie Simone Nebbia, di essere un “critico” disponibile a incarnare lo spettatore, a dimenticare il “krinein” per entrare nella solitudine raggiante di chi sente che a lui e di lui si parla e nessuno lo sa, non può dirlo, non può dirlo.
Da spettatrice cum-mossa e raggiante quando c’è da esserlo.
Grazie a priori Danio