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Terni festival: le forme dell’attraversamento

9°edizione del Terni Festival internazionale della creazione contemporanea, recensioni di We are still watching di Ivana Muller, l’istallazione di Eli Keszler, A poem di Mladen Alexiev/Eleonora Anzini, All ways di Beatrice Baruffini

 

Foto www.ternifestival.it
Living room di Willi Dorner Foto www.ternifestival.it

Macchinari da archeologia industriale, giganteschi barboncini colorati, versi salvifici alle pareti. Questi solo alcuni possibili universi che popolano il Centro Arti Opificio Siri, sede della pinacoteca comunale, di due musei, dell’unico teatro ternano attivo – il teatro Secci – e del Terni Festival internazionale della creazione contemporanea. Meno difficile raggiungere questo che attraversare Roma, ci viene da pensare appena arrivati. Dunque, che si cominci l’esplorazione: non per dare ordine al caos (acronimo del centro, peraltro), ma per provare a tracciare un parziale percorso personale all’interno della moltitudine di segni offerti da questa 9° edizione.
Si potrebbe partire dalle non scelte, da ciò che abbiamo scelto di by-passare non per scarsa adesione ma per banale mancanza di tempo. Rimarrà allora, forse, ancora più forte il desiderio, l’immaginazione in moto per quel percorso intimo tra oggetti d’arredamento di una Living Room e la tensione che, attraverso sette danzatori, il coreografo Willi Dorner avrebbe creato tra questa e gli spettatori. Di certo, tale istanza fortemente politica, volontà di allargamento della scena fino all’inclusione attiva degli spettatori, l’avremmo ritrovata in moltissimi altri progetti, come quello a cui abbiamo assistito – per cui probabilmente il caso di dire: partecipato – dall’inequivocabile titolo We Are Still Watching. Il format ideato da Ivana Muller prevede una particolare presenza di attori: quegli spettatori, più o meno consapevoli, che accetteranno di partecipare all’evento, unica condizione è la conoscenza dell’italiano. La sala, costituita da quattro scalinate convergenti al centro di un quadrato, è la scena, un ring in cui i nostri occhi potrebbero continuamente incrociarsi, occhi che ancora stanno guardando. Agli spettatori (tutti, a turno) il compito di leggere a turno alcuni copioni presenti in sala secondo indicazioni numeriche consegnate prima di entrare in sala, di seguire conseguentemente le eventuali azioni.
La riflessione che fuoriesce dalle parole pronunciate diversamente ogni volta, il tentativo per cui partendo da una sorta di “prova all’italiana” si possa allargare lo sguardo e provare a considerarci una micro società nella quale trovare un proprio posto e una propria libertà, tuttavia non bastano a portare la proposta oltre il riso momentaneo, troppo labile il legame tra gli sconosciuti perché si possa essere in grado di rafforzarlo, di superare la componente di gioco e, l’auto-riflessione (forzosa) che si interroga sulla natura della creazione provando a creare realmente qualcosa. E tuttavia l’operazione conserva almeno il merito di tenere desta l’attenzione su una questione mai risolta appieno, e da molti anni cara alle linee artistiche del festival.

All ways di Beatrice Baruffini Foto www.ternifestival.it
All ways di Beatrice Baruffini Foto www.ternifestival.it

Cercando allora differenti tipi di partecipazione, ci saremmo allora affacciati all’interno della Sala Carro Ponte (il cui nome deriva dal bellissimo pezzo d’antiquariato industriale ancora perfettamente intatto). Lontani dall’idea di contemplazione passiva, ci saremmo immersi nelle sonorità metalliche dell’istallazione site specific di Eli Keszler, prodotta in collaborazione col festival in seguito a una residenza proprio in quegli spazi. Nasce allora un concerto per ferrivecchi percossi a ritmo, cavi d’acciaio vibranti, registrazioni di suoni di strada e batteria. Nella penombra della sala a due piani avremmo anche potuto socchiudere gli occhi e lasciare che la nostra facoltà immaginativa intraprendesse la strada offerta al dispiegarsi di questa drammaturgia sonora; avremmo trovato aggettivi per un fuoco che scoppietta, materie che vibrano, suoni secchi e acuti; individuato legno, allumino, percepiti leggerissimi trilli come di pioggia, rami spezzati, angoli di silenzio, xilofoni. Distinguibili o meno, riconducibili alla probabile fonte o a un’immagine appropriata, il percorso avrebbe trovato la sua bisettrice riconducendo il nostro orecchio e il nostro sguardo nell’esibizione finale del sound engineer newyorkese, in una personale reinterpretazione della performance alla batteria, usando la bocca come cassa di risonanza, roteando piatti sulla grancassa, usando un archetto da violino,tendendo l’orecchio di lato, come ad afferrarne tutte le possibili sfumature.  Meno chiaro appare il percorso di videografico di Marcella Valentina Mancini  con il suo (impronunciabile) 2479,88=1528,43+951,45. Legato al contest internazionale dedicato alla relazione tra danza e spazi urbani, Dance Moves Cities, il progetto si profila come taccuino d’appunti visivi del viaggio fino a Riga, rimanendo sulla superficie di qualche contatto umano e  il vetro del finestrino dell’autobus.

Il viaggio, l’attraversare un luogo, anche durante le parentesi più statiche, non smette mai di parlare di sé; se è vero che, alzando lo sguardo alle pareti avremmo trovato il giusto“diversivo” per la nostra ora di pausa prima dell’ultimo spettacolo. Nato da una collaborazione tra Mladen Alexiev e Eleonora Anzini, A Poem è un progetto fotografico di “walking poetry”, poesia i cui versi, scelti dalle persone e scritti singolarmente su dei cartelloni da tenere bene in vista, possano raccontare la loro intimità tra il frammento poetico e il luogo scelto, che si tratti di un prato d’erba, di un arco a volta, di una mattonella lucida di pioggia. «The rain will not erase it» recita il titolo di questa edizione del festival, cercando di mantenere vive queste tracce sotterranee, linee guida che tentino di lasciarci all’in piedi nel marasma vitale. Entra dalla porta principale allora il lavoro di Beatrice Baruffini, All ways, un progetto che ha coinvolto per un anno sei adolescenti non professionisti a partire da una riflessione sugli spazi urbani. Declinazione all’infinito dell’idea di linea, ironico e preciso, il lavoro crea un codice condiviso dai ragazzi, che giocando mettono in pratica la loro idea su un’ampia gamma di temi; provate a immaginare a quante parole si possa associare il concetto di linea e otterrete – senza finire – il numero di quadri creati in All ways, costruirete ferrovie, svastiche, I-Ching, meridiani, vi perderete tra le montagne e tornerete a casa.

Ps: E il barboncino rosa? Il particolare che avevamo notato a inizio viaggio, ora si affaccia come ricordo: assieme a questo esemplare gigante, diversi sono gli animali di plastica over-size che popolano il CAOS (ma che hanno decorato le piazze di tutto il mondo); creati dal gruppo Cracking Art in plastica riciclata, le imponenti sculture sembrano ricordarci con un sorriso quanto poca strada potremmo percorrere prima che il progresso possa intervenire artificialmente e irreversibilmente sull’ambiente. La speranza, oltre all’azione? The rain will not erase it.

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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