Tra le molteplici offerte teatrali, sul Taccuino Critico si appuntano segni di sguardi diversi che rispondono a un’unica necessità: osservare, testimoniare, dar conto dell’espressione pura, del piccolo e grande teatro…
EDIPO IN COMPAGNIA
di Alberto Bassetti
con Paolo Graziosi e Elisabetta Arosio
musiche di Francesco Verdinelli
costumi di Bice Minori
regia Alberto Bassetti
La finitudine del tempo è trafitta dall’eternità dell’Edipo Re di Sofocle che, scalfita la pietra della memoria, diventa quindi mito, attraversando i più disparati ambiti disciplinari della cultura classica occidentale. Al Teatro Lo Spazio abbiamo assistito a Edipo in compagnia, spettacolo di Alberto Bassetti con Paolo Graziosi ed Elisabetta Arosio. Rispettivamente Edipo e Giocasta, i due sono accompagnati dalle figlie Antigone e Ismene, dalla Sfinge, dall’Oracolo di Delfi, dall’indovino Tiresia; tutti di volta in volta interpretati camaleonticamente da Arosio. Graziosi veste i panni dell’ormai cieco e vecchio «piede gonfio», interprete del copione di una vita già scritta, ma da chi però? Da un lato la volontà divina, dall’altro l’umano arbitrio, facce di una medaglia che in questo lavoro si assottigliano fino a scomparire l’una nell’altra, rammentando l’impossibilità di scinderle nel destino dell’uomo. La «dimensione umana» dell’opera originale appare allo spettatore come sottotesto dichiarato ma non volutamente rappresentato, facendo prevalere il personaggio Edipo e scolorando invece l’Edipo uomo. La complessità della tragedia è allora alleggerita dalla scelta, rischiosa e ardua, di indagare le dinamiche dei e tra i personaggi attraverso «un dramma che via via assume i toni della commedia ogni volta che i due discutono o battibeccano su questioni sempre più personali». L’intento registico è così minacciato da un equilibrio comico-tragico precario, che inficia l’indiscutibile profondità del mito. Al di là del parere critico sullo spettacolo, dispiace che ad assistervi in sala era soltanto un esiguo numero di spettatori, disturbati dalla confusione di due persone alle quali è stato purtroppo concesso di venir meno al rispetto per l’ascolto altrui.
Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri
Teatro Lo Spazio, Roma – ottobre 2014
GIOROTONDO
di Arthur Schnitzler
regia Simone Giustinelli
aiuto regia Erica Savilli
scene Micheal Durastanti
luci Paride Donatelli
foto di scena Marzia Troiani
con Ugo Benini, Cristel Caccetta, Bernardo Casertano, Roberto Di Maio, Beatrice Fedi, Jessica Granato, Margherita Mannino, Riccardo Marotta, Sarah Nicolucci, Daniele Terranegra
assistente di produzione Vincenzo Nappi
ufficio stampa Marco Giustinelli, Stefani D’Orazio
comunicazione Ludovica Angelini
produzione audio/video Matteo Giustinelli, Roberto Laureri, Emanuele Paragallo, Annalisa Sirignano
con il sostegno di Carrozzeria n.o.t.
un ringraziamento a Cineteatro Preneste Liberato, CsOa eXSnia
produzione Justintwo
co-produzione GenerazioneOFF
Prima che fosse Max Reinhardt ad allestirlo al Kleines Schauspielhaus nel 1920, il Girotondo di Arthur Schnitzler non aveva mai abitato la scena seppur terminato quattro lustri prima. Da quel momento non ha smesso di affascinare, o dovremmo piuttosto dire di attrarre. Rappresentazione mordace di una liquidità della relazione che non è difficile trasporre ai giorni nostri, a farne maggiormente un oggetto drammaturgico magnetico è l’assenza di buonismo morale, la falcidia della retorica a beneficio dell’esacerbazione della prassi, il suo sostanziarsi tra parossismo e verità, estrema astrazione e la più mera delle materialità. Il lavoro che Simone Giustinelli ha presentato a Carrozzerie n.o.t i primi due weekend di ottobre sembra volgersi alla ricerca di una chiave individuale che tuttavia non ne intacchi le intenzioni e la struttura. I dieci personaggi avverano le dieci situazioni in una sequenza in cui le tracce si congiungono senza alcun’altra delibera se non le comuni incongruenze, coiti reali e figurati della desolazione esistenziale. I quadri emergono nelle dominanti di rosso e nero, con piccole incursioni di bianco; il sistema circolare del testo si ripercuote sullo spazio, in quel flusso costante che lascia gli interpreti non protagonisti quasi a serpeggiare insidiosi attorno alla dimensione dell’azione disegnata di volta in volta con panche disposte e spostate a vista. Precisa e abbastanza netta la scelta estetica, su essa si calibra con una certa omogeneità di misura – eccetto poche sbavature o incertezze da attribuirsi alla mancata esperienza – la temperatura degli interpreti: questi gli aspetti a restituire la fruizione doppiamente benevola considerando il pericolo incombente di esasperazione cui il testo di per sé si sottopone.
Marianna Masselli
Twitter @Mari_Masselli
Carrozzerie n.o.t. , Roma – ottobre 2014
IL GIOCO DI MARIO
Spettacolo teatrale sulla dipendenza dal gioco d’azzardo
scritto e diretto da Alioscia Viccaro
con Anna Lisa Amodio Fabio Orlandi Alioscia Viccaro
scenografia Pasquale Cosentino
luci e fonica Raffaella Vitiello
Si cade anche da fermi. E non c’è bisogno di un burrone. Qualche tempo fa Radio3 aveva proposto una serie di radio documentari sul gioco d’azzardo, all’interno della striscia preserale Tre Soldi. Colpiva ad ascoltarli il legame inossidabile tra il gioco, quindi la malattia, e la cura. Si dimostrava come lo Stato incassi dal giocatore giusto il denaro che serve per curare il vizio. Insomma, lo spinge alla caduta e si affretta a raccoglierlo. Il teatro non se n’è occupato molto, lo fa in questo caso la Compagnia Malapianta portando in scena alla Casa delle Culture di Roma Il gioco di Mario, testo originale di Alioscia Viccaro che vi dirige sé stesso con altri due attori. Si inizia dalla fine, dunque, sul ciglio di una caduta. Poi c’è un salotto che è paradigma di un’intera casa, da cui la caduta ha avuto inizio e in cui si ascolta il drammaticamente realistico dialogo di una coppia. I loro problemi di lavoro stanno isterizzando il legame, annegando un amore precedente. Lui è distratto, lei in un’attenzione esterna cerca di risvegliare una cura che sente svilita. Un po’ prevedibile e didascalica l’escalation che porta dal disagio alle scelte estreme (licenziamento-video poker-alcolismo), ma lo spettacolo, sostenuto anche dall’ottima verve di un’attrice come Anna Lisa Amodio brava nell’attraversare diversi stati d’animo, ha un congegno ben strutturato perché non cede immediatamente al puro realismo e si misura anche con piccole concessioni surreali, in certi casi salvifiche.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Casa delle Culture, Roma – ottobre 2014