Rita Frongia con La vita ha un dente d’oro al Teatro della Caduta di Torino con regia di Claudio Morganti
La vita ha un dente d’oro, spettacolo di Rita Frongia con in scena Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur e la regia di Claudio Morganti – visto in quello spazio autogestito e vitale che è il Teatro della Caduta di Torino –, ha una struttura molto semplice, così come semplice è lo sviluppo drammaturgico. Due uomini – uno dei quali (Stetur) ha la testa coperta da una benda insanguinata – si trovano l’uno di fronte all’altro a un tavolino, con sopra solo un mazzo di carte, un bicchiere e una bottiglia di liquore; accanto a loro una chitarra elettrica. Essi cercano di passare insieme il tempo senza annoiarsi o torturarsi, insomma provando a viverlo appieno. L’uomo coperto di bende sarà in realtà un morente che sta esalando il suo ultimo, sussurrato respiro in un’aperta pianura, mentre l’altro (Pennacchia) sarà la Morte venuto a prendere il suo interlocutore per portarlo nell’aldilà, accompagnandolo con le note dissonanti della chitarra elettrica. Sebbene l’elemento sia ovviamente importante e rivelatore, fino alla fine questo svelamento è celato, nascosto dietro la vicenda dei due strani individui. Pennacchia e Stetur dominano infatti continuamente la scena, alternando dialoghi folli e divertenti, in cui per esempio scherzano sullo stereotipo dell’ubriaco sempre biascicante a teatro o giocano con un cane invisibile, a considerazioni profonde sul sapore amaro della Bellezza, su come la vita passi senza che ci appartenga mai davvero, o di come un artista come Malevič sia riuscito a uccidere Dio, disegnando su uno sfondo bianco il suo quadrato di un nero asciutto e compatto.
La meditata scelta di ricorrere a un apparato scenico e a un intreccio “povero” (si dia a tale aggettivo l’accezione positiva posta da Grotowski) permette a Frongia di concentrarsi su una questione più profonda. L’obiettivo artistico dell’autrice è infatti quello di costruire un grande memento mori, alla luce del quale chiedersi: che senso ha coltivare un’arte così fragile e abissale come il teatro, se la vita è talmente corta, come «è scritto sulla pelle» (Piero Ciampi, Il vino)? Sia i dialoghi divertenti che quelli seri di Pennacchia-Stetur ragionano, in fondo, di continuo e in modo più spesso non velato sull’arte dell’attore, sui suoi pregi e sulla sua tensione al bello, ma anche sui difetti di alcuni suoi cultori, tra i quali la tendenza ad affezionarsi a stereotipi e clichés (come, appunto, quello dell’ubriaco). Lo stesso titolo dello spettacolo è indice di questa precisa linea di ricerca. Come riportano le note di regia del lavoro, La vita ha un dente d’oro si ispira a un’antica espressione bulgara, che «pare venisse utilizzata per alludere al fatto che in tutto ciò che è vero c’è sempre un artifizio» e costituisce il perfetto corrispettivo del teatro. Del resto, quest’ultimo non è altro che un’arte sincera che, paradossalmente, passa per alcune finzioni, per piccoli inganni, per le illusioni create dalla parola poetica, attraverso la quale lo spettatore è condotto a una vitalità di gran lunga superiore a quella esperita nella quotidianità.
Frongia pare dunque rispondere alla domanda in questi termini. Il teatro è vita piena e sincera che si manifesta attraverso alcuni artifici, quegli stessi artifici di cui lo spettacolo, creato insieme alle teste calde e brillanti di Pennacchia-Stetur, è ricolmo e che attraggono di continuo l’attenzione dello spettatore. Si potrebbe inoltre aggiungere che il teatro è il tempo stesso, che cade uniforme come la neve bianca immortalata dal racconto The Dead di James Joyce, sebbene depurato dalla sua componente «sanguinaria» che porta, infine, alla morte. Ciò implica, pertanto, che chiedersi il senso di praticare quest’arte nel poco tempo che abbiamo a disposizione sarebbe come domandarsi oziosamente che senso abbia vivere, fintanto che siamo vivi e nel pieno delle nostre forze. Ma per precisare meglio che tipo di vitalità ha in mente Frongia, potrebbe essere utile esaminare un po’ più da vicino alcune battute chiave pronunciate da Pennacchia-Stetur e che alludono alla visione del mondo / dell’arte abbracciata dalla drammaturga.
Un primo elemento chiarificatore proviene dalla sua concezione che l’uomo non possiede la realtà e le cose di cui è intessuta, poiché queste si allontanano da lui persino quando ha l’impressione di esserne il padrone. Pennacchia-Stetur alludono infatti di continuo nello spettacolo al fatto che, nella vita quotidiana, ciascuno insegua qualcosa che illumina la sua esistenza, per poi scoprire che si trattava di un «faro spento», oppure si comporti come una bambina che guarda da un muretto gli eventi correre e passare senza posa, fragili e caduchi al pari di uno smorto ginepro. La vita ordinaria è così un susseguirsi nel tempo di frammenti slegati e incomprensibili, senza una trama accertabile, in altri termini un insieme di fatti che ricordiamo «come se» li avessimo vissuti, mentre non li abbiamo vissuti affatto. Ora, poiché il teatro procede per via contrarie, ossia riesce a tracciare almeno per un istante un ordine in questo confuso disordine e, giacché gli attori non agiscono sulla scena attraverso dei “come se” («agisco come se bevessi», «agisco come se ridessi», ecc.), bensì compiono azioni pure («bevo», «rido», ecc.), allora si può concludere che uno degli aspetti vitali del teatro è la sua capacità di far sì che le cose, finalmente, non si allontanino più da noi. Almeno per un istante, esse vengono anzi afferrate, accettate, capite.
Il secondo elemento illuminante è l’idea che l’attore agisca sulla scena «per non farsi male», che il «guizzo di un guitto» sia un modo per non provare la pena e la tristezza che si avvertono in molte circostanze dell’esistenza. Il teatro sarebbe così vitale in senso pieno perché contrasta quella che Juan Rodolfo Wilcock – poeta del Novecento, ingiustamente dimenticato – chiama «l’arte di farsi male», ossia l’abito razionale umano a costruire una società che perseguita e tiranneggia i suoi membri, invece che metterli nelle condizioni di coltivare i loro piaceri e talenti. Gli attori risultano così un modello di felicità perseguibile, smantellando col loro piccolo lavoro di ogni giorno un tassello che regge il sistema inumano e crudele in cui ci muoviamo.
Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo
Teatro della Caduta, Torino – Ottobre 2014
LA VITA HA UN DENTE D’ORO
con Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur
regia Claudio Morganti
drammaturgia Rita Frongia
organizzazione Adriana Vignali
con il sostegno della Regione Toscana e de Il Moderno di Agliana
Esecutivi per lo Spettacolo
Compagnia Teatrale diretta da Claudio Morganti
durata 60’
Per favore, riguardo alla diffusa e non necessaria abitudine di raccontare le trame e i finali degli spettacoli che volete recensire, da spettatore e da addetto ai lavori chiedo e scongiuro: non svelate ciò che evidentemente l’autore vuol far sapere non da subito, non togliete a chi si prende la briga di leggere un vostro articolo su persone interessanti e di riferimento nel teatro italiano, come Morganti e Rita Frongia, il piacere della scoperta e del percorso che autore, regista e attori vogliono far fare al pubblico.
Grazie
Caro Alberto,
intanto grazie per il messaggio e per il suggerimento. In effetti, potrebbe essere utile cercare di ridurre in una recensione la parte cronachistica e concentrarsi su aspetti più importanti. Mi permetto però di chiederti: l’aver rivelato il finale, toglie davvero tanto valore a un articolo, sul quale ho peraltro messo tutto il mio amore che nutro verso voi artisti (quindi anche verso di te)?
Mi farebbe molto piacere avere poi un tuo parere sugli argomenti che formulo e sui contenuti. Posso imparare qualcosa dal “feedback” degli altri. Ancora grazie e a presto,
Enrico.