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King Arthur: il Barocco secondo i Motus

King Arthur di Henry Purcell e John Dryden nell’allestimento di Motus e Sezione Aurea al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival

 

motus king arthur
foto Futura Tittaferrante

Era il 1691 quando al londinese Queen’s Theatre Dorset Garden andò in scena per la prima volta il King Arthur di Henry Purcell e John Dryden, rispettivamente autori di musica e libretto. La definizione dramatic opera, nella terminologia odierna più diffusamente semi-opera, suggerisce una forma spettacolare prevalentemente anglosassone in cui la fusione di verbalità e melodia è cardine strutturale che sfonda l’argine gerarchico dei generi, poi fissatosi nel Continente sulla crina del diciottesimo secolo. Filiazione del masque ed espressione ibrida della fantasmagoria meravigliosa e meravigliata di epoca barocca, questa tipologia di messinscena si offre ontologicamente al senso di contaminazione che pure si sottende al lavoro di Dryden-Purcell, all’interno del quale tuttavia non è stato difficile per molti rintracciare paralleli shakespiriani de The Tempest e riferimenti più o meno allegorici alla disputa politica che vide contrapposti nella successione al trono di Carlo II suo fratello, il cattolico Duca di York, e il protestante figlio illegittimo Duca di Monmouth.

In parte distante dalla più conosciuta canonizzazione del ciclo bretone legata ad Artù, la vicenda si concentra sull’amore tra il re e la principessa Emmeline, bramata da Oswald che contende al sovrano anche la corona e lo induce a un conflitto non voluto plasmando l’immaginario nello slittamento continuo tra contemporaneità e leggenda, verità e finzione, fascinazione e  rappresentazione della crisi.

Premesse necessarie e doverosamente sintetiche in questa sede per il lettore cui si “restituisca” l’allestimento dei Motus con l’ensemble Sezione Aurea, andato in scena durante Romaeuropa Festival al Teatro Argentina gli scorsi 18 e 19 ottobre per la regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. L’adattamento drammaturgico di Luca Scarlini – che sfronda l’originale di gran parte dei numerosi personaggi secondari e si focalizza sull’attorialità di Artù, qui Glen Çaçi, ed Emmeline, Silvia Calderoni – sembra tener presente l’ insieme di rimandi che permeano la narrazione: «Quest’opera vive di una forma assai complessa che ci mette alla prova con un contesto del tutto nuovo nel quale si ritorna a una specifica realtà musicale. […] Viviamo in un’epoca dove pensiamo che tutto sia sotto il nostro controllo. Noi siamo il centro. Ma è un periodo storico in bilico: basta poco perché tutto crolli improvvisamente e ritorniamo a essere impotenti. In questo senso il Barocco di Dryden e il nostro tempo sono simili»*. Stesso criterio di considerazione vale allora ancor meglio per l’impianto musicale dell’ensemble guidato da Luca Giardini che assolve appropriatissimo a un principio di ricostruzione filologica del “processo armonico” più che del risultato e in questo modo incontra il recupero delle linee e degli stilemi senza rinunciare ad una appropriazione di stile. L’apparato di archi, fiati e corde si unisce alle vocalità dei due soprani e del controtenore, abitanti della scena come spiriti soprannaturali, messi di un oltremondo in cui la coloratura si vuole elemento plastico, presenza tangibile, traduzione sottratta al solo dominio dell’acustica e proiettata verso una dinamicità organica svelata non solo metaforicamente dal gioco di specchi che rifrangono la luce e la scaraventano aggressiva contro le fibre degli occhi.

king arthur motus
foto Futura Tittaferrante

Gli occhi, certo: quelli della principessa di Cornovaglia –  femminilità contratta e glorificata dallo splendore bruno dell’abito di Antonio Marras –  offesi da una cecità di lenti a contatto diafane che si redime per rivelarle i volti, i luoghi, la foggia del reale, splendido e orribile, tremendamente naturale eppure assolutamente fantastico perché come dice Calderoni in conferenza stampa «Emmeline ritrova sì la vista, ma quello che lei fino a quel momento aveva sognato non coincide con la realtà. Il suo non vedere è per me il teatro e con lei ogni spettatore partecipa a questo rito»*. Insieme agli occhi di Emmeline i nostri quindi, quelli che si fanno sguardo tramutandosi in visione e in questo caso, come spesso nei lavori del collettivo riminese figlio di quei Teatri 90 che hanno partorito nomi come Studio Azzurro, si districano nella moltiplicazione di piani dello spazio: proiezioni di urbanità bombardate e rese significanti da grafologie di bombolette spray sul grosso schermo al fondo e poi il retropalco agito e ripreso in diretta dalla videocamera nella fenditura di una porta, e la dimensione lignea degli alberi in scena a riprodurre lo scheletrirsi di un’idea del bosco incantato che Dryden trasse frusta dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.

Operazione non facile quella dei Motus che in parte prosegue nella direzione del precedente Nella tempesta, ma cerca pure la quadratura con una cifra, una concezione, una prassi performativa abbastanza consolidata e non per questo sempre esente dal generare qualche perplessità.
Allora, se secondo il verbo barocco «È dell’artista il fin meraviglia» non restare totalmente stupiti, meglio ancora non essere rimasti stupefatti, atterriti sulla nostra poltrona dovrebbe bastare a dirci insoddisfatti. Eppure, siccome anche noi crediamo ancora che il teatro sia sortilegio atto a schiudere a una principessa la percezione del mondo, continueremo sazi “a mirare alle stelle attraverso le asperità”. Perchè come recita la frase tratta dal testo che nello spettacolo campeggia più volte quasi fosse l’epigrafe dell’epica contemporanea che ci si è voluto costruire…. «Sorry times are changed».

Marianna Masselli
Twitter @Mari_Masselli

*Dichiarazioni degli artisti annotate da Lucia Medri in conferenza stampa.

Guarda tutte le fotografie di  King Arthur scattate da Futura Tittaferrante

Visto al Teatro Argentina di Roma per Romaeuropa Festival, ottobre 2014

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KING ARTHUR
musica Henry Purcell
testo John Dryden
regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande/Motus
drammaturgia e traduzioni Luca Scarlini
consulenza al progetto Alessandro Taverna
con Glen Çaçi, Silvia Calderoni
in video Enrico Casagrande, Damiano Bagli, Ian Çaçi, Era  Çaçi
cantanti Laura Catrani, Yuliya Poleshchuk, Carlo Vistoli
ensemble Sezione Aurea Luca Giardini, Ayako Matsunaga, Michele Antonello, Aviad Gershoni, TeresaCeccato, Rosita Ippolito, Riccardo Coelati, Giangiacomo Pinardi, Filippo Pantieri
spazio scenico Enrico Casagrande, Daniela Nicolò
in collaborazione con Damiano Bagli, Silvia Calderoni
luci Alessio Spirli, Marie-Sol Kim
sound design Fabio Vignaroli
riprese e montaggio video END & DNA
cameraman in scena Andrea Gallo
abiti Antonio Marras
assistenti alla regia Silvia Albanese, Ilenia Caleo
organizzazione ensemble musicale Elena Bernardi
organizzazione generale Valentina Zangari
produzione Elisa Bertolucci
in collaborazione con Cronopios
comunicazione Silvia Albanese, Alessandra Angelini
diffusione all’estero Lisa Gilardino
produzione Motus, Sagra Musicale Maletestiana 2014
in collaborazione con Romaeuropa Festival, Amat/Comune di Pesaro
con la partecipazione amichevole di Rossini Opera Festival

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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