Short Theatre. Una riflessione a partire da una recensione di Franco Cordelli (Corriere della Sera) del 7/09/2014
Aggiornamento: qui l’articolo su Short Theatre 2022 con il riferimento alla critica di Franco Cordelli (Corriere della Sera, 22/09/2022)
Le parole non fanno la rivoluzione, le parole la preparano, la modellano, la fanno nascere anche solo inconsciamente: rivoluzioni private, piccole, all’oscuro, in una sala in silenzio con altri cento ad ascoltare il rumore di una miccia che si accende, ad aspettare il fragore dello scoppio. È prerogativa dell’arte – e il teatro ne potenzia la fiamma – accendere fuochi; è sempre stato uno degli obiettivi di Short Theatre e deve essere caratteristica di un festival del genere la possibilità di sbagliare, di rischiare, di mostrare qualcosa di estremamente radicale e culturalmente lontano dai territori a cui siamo abituati e se questo accade con i soldi pubblici e qualcuno storce il naso, a mio avviso, proprio vuol dire che quei soldi pubblici sono stati usati con un criterio, se ne faccia una ragione anche Franco Cordelli recentemente autore di un articolo talmente reazionario e aggressivo che quasi potrebbe farci dimenticare il ruolo che il critico del Corsera ebbe per quello che chiama “sottobosco teatrale” una quarantina di anni fa… si dirà che erano altri tempi, altri artisti, un’altra era. Ma il teatro rincorre ancora le stesse utopie, a noi la responsabilità di criticarle, di espanderne i significati, di smascherarle certo, ma a ragion veduta e in spazi che permettano confronto e approfondimento, non in due miseri blocchetti di caratteri capaci solo di trasformarsi in lame affilatissime. E poi in quel sottobosco ci sono piante da alto fusto come Roberto Latini, Babilonia, Stabile Mobile (di Antonio Latella) e altri che, come questi artisti e gruppi, hanno ormai avuto accesso a circuiti e Stabili. Dunque di che dimensione parliamo?
Oggi quel sottobosco riapre al pubblico dopo la pausa del lunedì, dopo aver mostrato una domenica piena di spunti, criticabili e per questo interessanti. Lo spettacolo bello e finito lo cerco da un’altra parte. Domenica ho visto due attori formidabili confrontarsi con un testo che toglierebbe il sonno a qualsiasi artista, Insulti al pubblico di Peter Handke. Ho visto Daria Deflorian e Pieraldo Girotto misurarsi con il vuoto, il silenzio, entrare di soppiatto nel corpo stesso del teatro, sbattere la testa sulla drammaturgia, cercare l’uscita di un labirinto che uscita non ha. Ho visto poi tre o quattro sopravvissuti dell’avanguardia di quarant’anni fa, scrutavano dall’alto, in una delle platee messe in piedi dal plotone di tecnici e lavoratori di Short, tanti giardinieri che ogni anno permettono al sottobosco di mostrarsi e forse anche crescere. Ma ho visto anche tanti giovani scoprire un testo storico che probabilmente neanche avevano mi letto. Li ho visti concentrati e stanchi, riflessivi e addormentati, sorridenti e cupi, presi tra le maglie di un meccanismo teatrale che dietro la maschera del metalinguaggio nasconde un armamentario filosofico e politico di altissimo livello.
Ho visto anche lo sforzo di Milena Costanzo nel dare forma a un’idea, che fin’ora idea è rimasta, e probabilmente con me avrà sofferto parte del pubblico nel riconoscere quella difficoltà tutta teatrale di dare corpo a una serie di immagini. La vita della poetessa statunitense Anne Sexton dovrebbe riverberare sui corpi dei due interpreti (insieme a Costanzo c’è Gianluca De Col), ma l’operazione riesce solo in minima parte lasciando un paio di momenti straordinari, come il monologo finale; ma anche tanti tentativi disordinati: dalla facile sublimazione dei personaggi con gli attori in carne ed ossa fino a sterili momenti di danza o playback, passando per la fredda lettura della biografia dell’artista. Forse bastava la poesia.
Infine sempre domenica ho visto il pubblico (i soliti appassionati in cerca di funghi strani nel sottobosco) accendersi per uno spettacolo che neanche mi sfiorava, ma che aveva dalla sua la forza di far riscoprire una forma quasi inesistente a Roma e comunque presente in misura ridotta in Italia. Con i modi del teatro canzone il Teatro della Tosse Tosse ha portato a Short The wedding singer, un excursus nella poesia rock femminile del secolo scorso. Nico, Janis Joplin, Nina Simone, Sandy Denny e altre, tutte cantate e raccontate da Angela Baraldi senza troppi infingimenti, senza che l’attrice cerchi ogni volta di trasformarsi in una di loro. Purtroppo i testi non aggiungono niente rispetto alla solita mitologia del rock fatta di morti giovani, comportamenti al limite, sovversione e talento stellari e la scansione drammaturgica proprio non riesce a uscire da quella strettoia senza uscita di canzoni e racconto, canzoni e racconto… così fino a misurare ogni volta la performance con un fragoroso applauso.
Ma insomma molti di voi si chiederanno “allora a parte Insulti al pubblico non ti è piaciuto nulla?”, forse è vero, semplicistico ma vero, ma non per questo urlo allo scandalo per i finanziamenti pubblici che tengono in piedi il festival di Fabrizio Arcuri, non tutte le micce arrivano a scoppiare e a me interessa quella problematica accensione.
Andrea Pocosgnich
Twitter @andreapox
Scarica l’articolo di Franco Cordelli sul Corriere della Sera
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Concordo! Cordelli non è un critico di teatro è un invettiva unica. Dagli Anni Settanta in qua non fa che lamentarsi dei finanziamenti nei suoi articoli. Inoltre, la maggior parte delle sue recensioni sono di parte e smontano miserabilmente tutto quello che non rientra nella sua ideologia. Giusto ieri sera si discuteva dell’incapacità di quella generazione a superare le ideologie. Sono più invasati dei ciellini.
Ho sempre seguito con molto interesse le recensioni di Cordelli perchè lo ritengo un vero critico teatrale. Un uomo indipendente dalle mode che esprime il suo giudizio con cognizione di causa. Non è da reazionari non approvare alcune scelte di avanguardia che invece di essere profonde sono un esibizione dell’Io e sono molto più piccole borghesi di un teatro tradizionale. Quando la sperimentazione stravolge le forme a partire da una novità di contenuto allora fà un operazione cuturale non da poco. Ma quando la sperimentazione non ha il coraggio di innovare i contenuti e si appropia di contenuti altrui per imporre una forma simbolica che comprende solo il regista e di cui spesso sia gli attori che i tecnici che vi partecipano ne sono all’oscuro e non ne hanno coscienza l’operazione è a servizio dell’Ego del regista che propone una soluzione ambigua della cosa oscura posta al centro del componimento. Tali soluzioni fregano i critici asserviti e il pubblico non emotivo ma non ingannano il critico, l’addetto, o il pubblico dotato di pancia e di testa.