Short Theatre Festival 2014: il diario della prima giornata. Note su Cie L’Alakran, Dewey Dell, Fratelli Dalla Via, Zaches Teatro
L’abbiamo già scritto qualche anno fa: per la comunità teatrale romana l’apertura di Short Theatre è un po’ come il primo giorno di scuola. Una piccola folla si raccoglie nel piazzale della Pelanda.
Il direttore Fabrizio Arcuri, che ho visto gironzolare per il piazzale durante tutti e sessanta minuti che separano l’orario di «apertura» da quello del primo spettacolo, mi domanda che cosa vedrò questa sera. «Tutto», rispondo. Sembra quasi stupito.
Mentre la luce di questa capricciosa fine d’estate divide in ombre lunghe le grosse ringhiere di ferro dell’ex Mattatoio di Testaccio, il bar comincia a spillare le prime birre, la coda alla cassa e, ancor di più, al banco accrediti esplode i primi possessori di biglietto, i programmi verde-rosseggiano tra le mani degli spettatori, ora già in fila per entrare a vedere l’esito del laboratorio del gruppo svizzero Cie L’Alakran.
La casa di Eld è una riflessione fin troppo aperta sulla gioventù come speranza di futuro invece soffocata da un passato ingombrante e da un presente senza visioni. L’omonima favola di Robert L. Stevenson, svolta in parole nella parte centrale dello spettacolo, diviene una parabola politica che parla dell’incontro-scontro tra generazioni, dell’ormai endemica tentazione al rifiuto come reazione passivo-aggressiva all’insostenibilità. «Sono Jack, ho 17 anni e rifiuto»; «Sono Jacques, ho 19 anni e rifiuto», dichiarano a turno a un microfono i giovanissimi partecipanti al laboratorio condotto da Oscar Gómez Mata; «abito a Monteverde, se potessi cambiare qualcosa cambierei mio padre; cambierei questo paese; cambierei compagnia teatrale». La riflessione sulla tradizione di un comportamento, sull’opportunità di comporre una sorta di istantanea storia delle mentalità, pur se volenterosa e potenzialmente interessante nell’uso largo dell’ambiente scenico, è purtroppo resa opaca da un generale disordine: l’eccesso nell’uso di diversi segnali confonde e appesantisce la drammaturgia, solleticata piuttosto che resa realmente viva da inserti cantati sui loop musicali, macchina del fumo, lavagne luminose caleidoscopiche, maschere, frasi di didascalia scandite al microfono o proiettate come sopratitoli. Il tutto per un tempo smisurato, che finisce per indebolire anche il bell’impatto del quadro finale, in cui i ragazzi costruiscono una vera e propria struttura di bambù, insieme zattera e riparo.
Usciti da una sala ne infiliamo un’altra, ancora storditi, per gettarci in una sorta di macchina spazio-temporale che ci trasporta su un altro pianeta, milioni di anni fa, come si legge nelle note di regia. Oppure, più semplicemente, su questa nostra Terra negli anni Ottanta. Marzo di Dewey Dell è un simpatico e coloratissimo delirio nato dalla collaborazione di Agata, Demetrio, Teodora Castellucci ed Eugenio Resta con il drammaturgo e regista giapponese Kuro Tanino e il suo connazionale Yuichi Yokoyama, artista visivo con buona fama di fumettista. Un triangolo amoroso si fa paradigma di guerra e sopraffazione, tra combattimenti degni delle migliori serie dei Power Rangers, irresistibili incursioni di tre alleati/disturbatori/coloni formato omino Michelin e un cammeo di una sorta di enorme stella marina vivente. L’assordante traccia sonora è senza dubbio ben curata e suggestiva, l’impianto visivo staglia su un convesso fondale bianco le figure colorate di toni sgargianti, l’uso delle tute gonfiabili sfiora l’immaginario (più artigianale ancora) del teatro di figura astratto di Mummenschanz e il pregio di sapersi non prendere troppo sul serio ci lascia divertire in pace. Tuttavia qualche brano un po’ scimmiottato di fiaba orientale, diviso tra audio giapponese e sottotitoli multilingua, non basta a donare a questo viaggio interstellare l’incisività che si domanda a chi ha grandi possibilità produttive.
Di tutt’altre possibilità produttive usufruisce (e racconta) Veneti Fair, il frontale avanspettacolo dei Fratelli Dalla Via, che il giorno seguente presenteranno il loro Mio figlio era come un padre per me, vincitore del Premio Scenario 2013. Rampolli di quel Nord Est dove il Po avanza di estate in estate mietendo sempre più terroni sono i personaggi snocciolati dalla abile Marta Dalla Via – qui diretta da Angela Malfitano – con un pizzico d’aiuto del fratello Diego: tra spritz obbligati, vino bianco al posto della spremuta mattutina, fabbriche orgogliosamente a nero e quella agghiacciante spocchia separatista che tanto sa di crociata dei costumi, un cesto intero di caratteri dà forma in scena al provincialismo più pericoloso. Del lavoro si intuisce l’anzianità (è datato 2010) e dunque una certa forma acerba che non riesce ad andare oltre la macchietta (pur ben rappresentata), fino a fare del palco un simpatico museo di maschere un po’ bidimensionale. L’impatto con la base reale di certi monologhi, che viene consegnato da un breve e un po’ confuso videoclip in chiusura, era allora più forte nel monologo finale, dove Marta interpreta Marta; ma nonostante il bel prologo site specific declamato al leggio da Diego Dalla Via (composto esclusivamente con parole che cominciano per P) al tentativo documentario pur dotato di ritmo in un certo senso manca proprio l’affondo critico.
Senza neppure tempo per passare dalla toilette, infiliamo l’ultimo spettacolo, Il fascino dell’idiozia. Breve, cupo, nero, astratto e angosciante è il delirio immaginato dai toscani Zaches Teatro, primo passo del Dittico della Visione che ci regala qualche momento di grande rigore visivo e performativo. Le immancabili colonne di ferro del Mattatoio costringono il pubblico alla visione ristretta di un quadro a cui manca forse una maturità drammaturgica, ma – tra manichini, maschere da capro e ombre – con poco riesce a catturare lo sguardo. I modelli di riferimento, dal teatro di figura al teatro nero, aiutano a immaginare come meta concettuale la fuga in un universo à la Goya in cui «il sonno della ragione genera mostri». Ed ecco una degna conclusione di serata.
La Rivoluzione delle Parole è cominciata. E in questo primo giorno di scuola è stato affollato anche di volti nuovi. Le altre facce – è vero, è una realtà – erano sempre le stesse. E perché non dovrebbe essere così? Significa che una comunità esiste, che si fa più forte, che cresce insieme, insieme passa attraverso tutte le difficoltà, gode delle piccole vittorie, trema delle solite ed ennesime paure. Come, appunto, a scuola, in attesa dell’esame, dell’interrogazione, del compito in classe. E la ricreazione? In questo primo giorno non se ne è parlato neppure. Sulla via del bar, in cerca di un meritato drink, scorgo il direttore e il resto dello staff in decompressione su un divano, in attesa di un panino. «Il segreto – mi consiglia qualcuno – è saltare uno spettacolo». «E poi il diario come lo faccio?».
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
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LA CASA DI ELD
Ideazione, scrittura, regia: Oscar Gómez Mata
Con Jean-Luc Farquet, Esperanza López, Roberto Molo e un gruppo di ragazzi e ragazze
Assistente alla regia: Bastien Semenzato
Scenografia, accessori : Sylvie Kleiber e Hervé Jabveneau
Realizzazione maschere: Isabelle Matter
Direttore tecnico e disegno luci: Roberto Cafaggini
Composizione musicale e creazione suono: Andrés García
Creazione video: Nico Baixas
Regia suono: Xavier Weissbrodt
Costumi: Isa Boucharlat assistita da Karine Dubois
Produzione e amministrazione: Barbara Giongo
diffusione internazionale: Miguel Acebes
Coproduzione: Cia L’Alakran, St-Gervais Genève Le Théâtre, Bonlieu-S.N. Annecy (progetto PACT, in FEDER / INTERREG IV), TLH-Sierre, Arsenic – Lausanne, Hexagone-S.N. Meylan, Théâtre Benno Besson-Yverdon / con il sostegno di Label + Théâtre Romand e l’aiuto dell’Ass. Attodue
MARZO
concept Dewey Dell (ITA) / Agata, Demetrio, Teodora Castellucci, Eugenio Resta
assistenza alla regia Kuro Tanino (JP)
disegno dei costumi Yuichi Yokoyama (JP)
con Agata Castellucci, Teodora Castellucci, Enrico Ticconi e con Sara Angelini, Vito Matera
coreografia Teodora Castellucci
musiche originali Black Fanfare / Demetrio Castellucci
luci e scena Eugenio Resta
voci Minako Matsuishi, Kuro Tanino
realizzazione dei costumi Fly-Inflate, Giovanna Amoroso e Istvan Zimmermann/Plastikart, Atelier Pietro Longhi
Realizzazione della scena Fly-Inflate, Vito Matera
produzione Dewey Dell 2013
coproduzione steirischer herbst / Graz, BUDA Kunstencentrum / Kortrijk for NEXT International Festival, Centrale Fies / Dro con il sostegno di Tanzfabrik Berlin e di University of Zagreb – Student Centre Zagreb – Culture of Change (within APAP – Advancing Performing Arts Projects)
si ringrazia Schaubühne Lindenfels / Leipzig
Dewey Dell è sostenuta da APAP
VENETI FAIR
di Marta Dalla Via
con Marta Dalla Via e Diego Dalla Via
regia Angela Malfitano
video Roberto di Fresco
tecnico Roberto Di Fresco
Dittico della Visione. Il fascino dell’idiozia #1
regia, coreografia e drammaturgia del suono Luana Gramegna
scene, maschere e luci Francesco Givone
musica originale, video e live electronics Stefano Ciardi
performer Andrea Lorena Cianchetta, Martina Garbelli, Enrica Zampetti
voce Enrica Zampetti
una produzione 2009/2010 di Zaches Teatro
co-produzione: Kilowatt festival 2009 – Eruzioni Festival 2009