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Riforma Fus: la legge dei grandi numeri

Riforma Fus e spettacolo dal vivo: Stabili Privati e di Innovazione a rischio declassamento, apertura a giovani imprese di produzione, il peso sugli enti locali e neanche una parola su esperienze periferiche di partecipazione attiva dei cittadini

 

riforma fus spettacolo dal vivo decreto valore culturaUn nuovo assetto triennale senza economie certe

C’erano una volta i Teatri Stabili, quelli di Innovazione e i Teatri Privati di Interesse Pubblico…

Queste le tre categorie storiche che dovranno rimboccarsi maggiormente le maniche con la nuova riforma del Fus (il Fondo Unico per lo Spettacolo) per poter accedere ai finanziamenti statali nei prossimi anni. Il nuovo assetto dello spettacolo dal vivo voluto dal dicastero presieduto dal ex ministro Bray ha ora tagliato il traguardo con l’attuale ministro Franceschini e si appresta a sconvolgere il panorama di quella complessa filiera di arti performative che finora poggiava le proprie fondamenta economiche sui finanziamenti statali.

Va subito detto, come in molti già hanno commentato, che l’entità di questa rivoluzione si paleserà solo quando la riforma sarà accompagnata dal volume effettivo di economie destinate al Fus. Insomma se il fondo subirà la solita cura dimagrante a poco serve qualsiasi tipo di riforma, nonostante l’importante novità dell’assetto triennale. Proviamo comunque a riflettere sull’ipotetico impatto di questa nuova serie di regolamenti applicati al teatro (tralasciando per ora musica, danza e cinema) al netto delle forbici in mano al Ministero dell’Economia.

I Teatri Nazionali

Come ormai tutti sanno i Teatri Stabili verranno sostituiti dai Teatri Nazionali e qui suona il primo campanello d’allarme: la voce che circolava fino a qualche tempo fa sulla quantità dei Teatri Nazionali è stata smentita dal legislatore, per ora non c’è nessun numero minimo o massimo. Quanti saranno? È nella natura delle cose che tutti gli attuali Stabili facciano richiesta. L’asticella però si è alzata di molto: ai futuri teatri Nazionali il Ministero chiede, oltre alle 240 giornate recitative di produzione e le 15000 giornate lavorative, «un totale di almeno 1000 posti, con una sala di almeno 500», una ritoccata agli statuti (ad esempio il direttore dovrà essere in carica da un minimo di 3 a un massimo di 5 anni) e poi quella norma che dovrebbe simboleggiare il nuovo corso rispetto al passato: i direttori artistici non potranno firmare più di una regia. È interessante però anche un altro punto di cui fin troppo poco si è discusso finora, quello della formazione: la riforma infatti prescrive la costituzione di scuole e percorsi di specializzazione, ma non specifica nulla circa l’accessibilità. Alcuni Stabili (Milano, Torino, Genova e da poco Palermo) si avvalgono già di percorsi formativi, vedremo come si aggiorneranno gli altri. Permane (ma viene quantitativamente raddoppiata) la misura a favore della sperimentazione, cavillo che serve solo a cristallizzare un processo già in corso da anni senza specificarne un background storico-culturale. I Teatri Nazionali dovranno infatti programmare o produrre almeno 2 spettacoli di autori viventi e 2 di ricerca teatrale. Come ha già rivelato ateatro.it nel prezioso lavoro di spiegazione e riflessione sulla riforma (leggilo qui) la definizione è alquanto impalpabile. Che cos’è la ricerca teatrale oggi? Si rimanda la riflessione alle commissioni che dovranno districarsi tra questi e altri problemi (naturalmente a titolo gratuito).

Privati a caccia di contributi dagli enti locali

Ma i soggetti evidentemente più in pericolo sono proprio gli Stabili di Innovazione e i Teatri Privati di Interesse pubblico. Entrambe le diciture scompaiono per confluire nei Teatri di rilevante interesse culturale, i famigerati “Tric”. Il problema che ha fatto saltare sulla sedia molti direttori è la richiesta di certificare il 40% del finanziamento ministeriale di provenienza degli enti locali. Prendiamo proprio il turbolento caso dell’Eliseo che nell’ultimo anno percepiva più di 1 milione e 300mila euro dallo Stato, secondo questa riforma dovrebbe chiedere a Comune o Regione (o entrambi) 520.000 euro, parliamo di cifre difficili da mandare giù per Marino e Zingaretti, i quali già non riescono a star dietro agli stanziamenti per il Teatro di Roma, i festival, le Officine, l’Estate Romana. Stesso discorso ma con cifre diverse per gli Stabili di innovazione, a Roma il Vascello e il Teatro degli Accettella, e per gli altri Stabili privati  Sistina e Vittoria. E allora calcolatrice alla mano gli Stabili Privati e di Innovazione capitolini per riuscire a ottenere i finanziamenti percepiti all’ultima tornata (2.814.643 euro totali), ora con i Tric, dovrebbero far sborsare agli enti locali 1.125.857 euro. Questi sono tuttavia solo alcuni esempi romani, vicini all’area di competenza di chi scrive, ma di casi simili è pieno il territorio nazionale, in ballo ci sono spazi e posti di lavoro a rischio; giusto o meno che sia questo nuovo assetto, se Regioni e Comuni non troveranno un modo per sanare la situazione prendendo magari spunto da certi esempi virtuosi del Nord, all’orizzonte vi è una vera e propria lacerazione del tessuto teatrale. Ma in ogni caso, quale dovrebbe essere il giusto modello di soccorso offerto dagli Enti locali? Affidamento diretto o bando? Nel caso di Roma quelle cifre drenerebbero una bella fetta di contributi destinati allo spettacolo dal vivo.

Largo ai giovani?

La riforma inoltre tra i suoi obiettivi si propone di favorire il tanto auspicato ricambio generazionale. Ecco infatti che nel regolamento destinato alle imprese di produzione vengono inserite agevolazioni per quelle a maggioranza under 35. Alle giovani compagnie vengono richieste per il primo triennio 400 giornate lavorative e 40 recite all’anno: cifre che non sembrano poi così alte, ma che non smettono di spaventare se pensiamo alla situazione degli ensemble under 35, costantemente affamata da un sistema che paga poco e in ritardo, spesso soggetto alla dittatura del guadagno a incasso. Dalla stagione successiva al primo triennio scattano i minimi delle imprese di produzione over 35: 1300 giornate lavorative e 110 giornate recitative (900 e 80 per il primo anno), cifre che scendono a 1000 e 90 (700 e 70 per la prima annualità) nel caso in cui la compagnia in questione appartenga all’ambito «della sperimentazione» o «del teatro per l’infanzia e la gioventù». Anche in questo caso le commissioni avranno da fare per capire quali siano proposte di innovazione e quali no.

Parole d’ordine: crescita e pulizia

D’altronde il direttore generale Salvo Nastasi, nella relazione dedicata alle categorie e regioni, affermava proprio la volontà di far emergere la «capacità imprenditoriale», da qui l’innalzamento dei requisiti minimi. Insomma le realtà che resisteranno dovranno produrre di più, lavorare sulla comunicazione e sul pubblico in maniera quasi forsennata. Sarà una spinta al rinnovamento o una semplice carneficina che allargherà ancor di più il gap tra il nord e il sud d’Italia, tra chi è già dentro e chi non riuscirà a entrare nonostante gli spazi che si libereranno?

Tra le spinte positive della legge registriamo l’apertura alle azioni cosiddette “trasversali” inerenti la promozione (ricambio generazionale, inclusione sociale, perfezionamento, formazione del pubblico) e alle Residenze, delle quali però il legislatore sembra avere un’idea ancora vaga; l’articolo dedicato, il 45, è infatti uno dei più corti e non fa altro che rimandare la questione ad accordi futuri con le Regioni.

Ma la sensazione è che ci si sia affidati alla matematica per far ruzzolare un po’ di teste: è vero probabilmente che negli ultimi 30 anni abbiamo assistito anche allo svilupparsi delle cosiddette “rendite di posizione”, a Teatri Stabili Pubblici che hanno dimenticato cosa voglia dire lavorare sul pubblico, a privati che hanno mancato il rinnovamento, a Stabili di Innovazione incapaci di guardare alle nuove generazioni e alla nuove tendenze della sperimentazione, ma non avrebbe avuto più senso riformare tutto ciò a partire da una mutazione culturale del sistema e non solo dai suoi numeri?

Decentramento e cittadinanza attiva

Tali numeri sono grandi, questa legge non tiene affatto conto delle piccole esperienze, non premia quei piccoli teatri che in molte città rappresentano la vera ossatura del sistema, non menziona nei criteri qualitativi le sfide periferiche di certe sale che hanno scelto il difficile radicamento in zone decentrate. Inoltre si parla del pubblico sempre e solo come massa di fruitori, mai come partecipanti attivi. Pensiamo non solo al percorso del Teatro Valle con uno dei futuri Teatri Nazionali (il Teatro di Roma), ma anche a ciò che è accaduto a Gualtieri dove la città ha rimesso in piedi un teatro. Se si sposta l’attenzione dalle cifre, dai criteri quantitativi, dagli allegati con le formule lunghe quanto una lavagna, ci si accorge che la riforma ha perso l’occasione di fotografare l’esistente più vivo, quello fuori dai grandi numeri che decretano ciò che è impresa e ciò che non lo è.

Andrea Pocosgnich
Twitter @andreapox

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

2 COMMENTS

  1. Fermo restando che, in linea di principio, sono d’accordo con la triennalità del FUS, trovo poco intelligente applicarla ora che l’economia è ai minimi termini, la disoccupazione galoppa e le produzioni teatrali hanno grosse difficoltà a progettare il futuro.
    Questo è il momento in cui si dovrebbe agevolare le produzioni e non porre dei carichi numerici possibili a pochi (ai soliti pochi??).

    Teatri Nazionali
    La questione dei teatri stabili è paradossale, sembra di essere nella Russia sovietica!
    L’unica cosa positiva della riforma è che i teatri pubblici non si chiameranno più stabili (ho speso ore all’estero a cercare di far capire perché si chiamavano così. Ma non avendolo capito io non riuscivo a farlo capire agli altri!!)
    Si chiameranno nazionali o Nazionali. Mi chiedo: essendo più o meno uno per regione non era più logico chiamarli regionali? Che senso ha avere più di un teatro Nazionale o nazionale? A parte la possibilità per la classe politica di sistemare dirigenti e maestranze varie.
    Interessante la norma che vieta più di una regia al direttore artistico sputando in faccia al meglio che ha dato il nostro teatro pubblico partendo da Strehler fino a Ronconi: in questo caso credo che non molti la pensino come me (soprattutto i registi) ma ho sempre pensato che il teatro non è democratico, qualcuno ha più talento di altri!
    La sperimentazione: qualcuno per favore mi spiega cos’è!! Fare testi nuovi, recitare nudi con i capelli bagnati, allestire pippe multidisciplinari, abbattere la quarta parete e poi rimetterla in piedi… Nei paesi dell’est e del nord Europa il “teatro di innovazione” lo fanno e basta! Nessuno si è sognato di imporlo al teatro Pubblico Nazionale.
    Per quanto mi riguarda, ho il mio personale pensiero su cosa sia innovativo: è innovazione quando un gruppo di persone, attori, scenografi, musicisti, tecnici eccetera insieme a un regista cominciano a lavorare a un testo, a discutere, a mettere in discussione a provare e riprovare finché la ricchezza di ciascuno possa portare ad un risultato inaspettato, nuovo, magari non eccellente o discutibile, ma diverso. Non è cosa che può fare, per ora, un teatro stabile, pardon Nazionale!
    Sicuramente i commissari sapranno cavare la giusta dose di innovazione da tutti i partecipanti.

    Teatro Privati di interesse pubblico.
    Che cosa sono? Si è mai visto un teatro che non è di interesse pubblico? Sono teatri privati punto e basta. Se lo stato li vuole sovvenzionare (cosa che credo opportuna) vanno chiamati teatri privati sovvenzionati. L’appellativo “di interesse pubblico mi sa di “pare brutto dare soldi ai privati, diciamo che e per il bene comune e ci laviamo la coscienza”. Detto questo, un teatro che prende circa un milione e mezzo di euro dallo stato mi sembra che abbia poco di privato (mi riferisco all’Eliseo)!! Aggiungo che la differenza di sovvenzione tra i vari teatri privati italiani è assolutamente scandalosa, ma tant’è.
    Ora ci saranno i teatri di rilevante interesse culturale. Caspita! Non potrò fare a meno di frequentarli.
    Se non ho capito male, nella capitale d’Italia, Roma, questi teatri hanno preso finanziamenti per 2.814.643 (mi fido della fonte Teatro e Critica). Ora, o questo interesse non è così rilevante o la cifra mi sembra assolutamente ridicola. D’altronde i turisti non vengono certo a Roma per le attrazioni culturali contemporanee e le arti performative!

    Largo ai giovani!
    Evviva, nei primi tre anni gli under 35 (non azzardatevi a scritturare una nonna) dovranno fare solo 40 recite e 400 giornate recitative. Se sono giovani di nome potranno farne anche cento di recite (magari pagate) e il problema non si pone. Ma se sono solo giovani di talento dovranno faticare a trovare le benedette 40 repliche (averle!!), pagare i contributi di 400 giornate lavorative e alla fine dei tre anni, se sono sopravvissuti, dovranno inventarsi i numeri di tutte le altre imprese!! Forse qualcuno ci cascherà e ci rimetterà magari l’appartamento lasciato dalla nonna ma la maggior parte credo che cercherà altre strade.

    Non poteva esserci legge più ipocrita nei confronti dei giovani.

    Crescita e pulizia.
    Far emergere la capacità imprenditoriale?? Nella patria dei furbi e dei furbetti. Al massimo emergerà la capacità, in cui per altro siamo già maestri, del “fatta la legge trovato l’inganno”.
    Sono trent’anni che il FUS è un mercato delle vacche e improvvisamente il Ministero ci vuole tutti capaci imprenditori e teatranti dalla morale integerrima. Per quello bastava poco: magari due controlli e un po’ di buon senso.
    Insomma, bisognerà lavorare sul pubblico e sulla comunicazione, fare innovazione, fare numeri, imprendere e sostenere il rilevante interesse culturale.
    E il teatro chi lo farà?

  2. Nell’articolo ci si dimentica che il raggiungimento dei parametri non ti da la sicurezza del finanziamento, né dell’assegnazione, né della quantità di esso

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