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Riforma Fus. Interviene Stefano Massini

Riforma Fus l’intervento di Stefano Massini. Un’inchiesta di Tetro e Critica. Segui su Twitter #inchiestaFUS

 

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Stefano Massini durante un incontro con Luca Ronconi

Abbiamo intenzione di condurre un’inchiesta sulla nuova legge che regola l’accesso ai contributi con la riforma Fus. Dopo l’articolo di Andrea Pocosgnich di attraversamento e riflessione stiamo chiedendo, ad alcuni artisti e operatori a nostra scelta, uno scritto o un video in cui emerga un parere sulla legge in relazione al lavoro e alle prerogative di ognuno. Gli interventi verranno pubblicati su TeatroeCritica.net a puntate al fine di creare un dibattito aperto ed eterogeneo sull’argomento. TeC

Stefano Massini, fiorentino, è uno dei drammaturghi italiani più tradotti e rappresentati all’estero. In oltre dieci anni di carriera ha indagato molte delle asole della storia sociale contemporanea. Tra i suoi lavori più celebri, alcuni dei quali anche diretti, ricordiamo La fine di Shavout (2004), L’odore assordante del bianco (2005), Donna non rieducabile (2007), Lo schifo (2010), Balkan Burger (2011) e La PortaIl suo ultimo lavoro è il titanico Lehman Trilogy – I capitoli del crollo, pubblicato da Einaudi e in produzione al Piccolo di Milano per la regia di Luca Ronconi.

Ho la sensazione di aver già visto questo spettacolo. Forse perché ogni tentativo di riforma parte sempre con l’illusione di poter cambiare le cose agendo solo sul sistema-teatro, anziché sul rapporto fra quel sistema e il corpo sociale. Provo a fare un esempio: premesso che è solo da lodare il potenziamento delle giovani strutture under 35 (quindi ben venga l’abbassamento dei parametri per il loro riconoscimento), credo sia assai ipocrita ritenere che una nuova stagione di teatro giovane nasca solo dall’allargamento della platea di chi il teatro lo fa. Il problema sta nel pubblico che non va a vedere queste proposte, nella limitatissima sfera di interesse che queste proposte suscitano nella società più ampia, quindi nel deprimente circolo di poche centinaia di cultori che partecipano al rito, sempre più spesso confinato in sale ridotte con apparenti ineccepibili ragioni/alibi di più diretta fruizione.

Una vera giusta riforma dovrebbe tentare (o almeno porsi il problema) di come radicare il teatro nella società, nella mediosfera, nelle abitudini comunicative. Sarò un illuso, sarò un utopista, ma non riesco a non pensare che il teatro abbia bisogno di una politica complice non (solo) nel riformare gli assetti dei Teatri Nazionali, bensì nel detassare gli oneri investiti in finanziamento di teatri, nell’incentivare la conversione di spazi dismessi in sale per pubblico spettacolo, nell’abbassamento dell’IVA sui biglietti, nell’urgentissima formulazione di un contratto nazionale apposito per gli operatori teatrali: mai come oggi, infatti, i contratti per lavoratori a tempo determinato sono bastonati dal fisco, con l’obiettivo di farli trasformare in più vantaggiosi contratti stabili, ovvero quei tipi di patto lavorativo che nel nostro ambiente sono letteralmente impossibili visto che nessun teatro assumerà mai un attore o uno scenografo “per sempre”. E poi, perseguendo ancora un’idea di riforma immaginaria, sono contrario a dotare ogni Teatro Nazionale di una scuola (inutile) per diplomare (inutili) nuovi attori: è un errore. Preferirei nettamente individuare solo due (al massimo tre) Accademie di prestigio nazionale, magari però con la era rivoluzione di inserire il Teatro fra le materie da studiare sui banchi di scuola, così come la Musica o l’Arte (uso volutamente le maiuscole perché dovremmo smetterla di considerare tutto questo nella categoria-paccottiglia degli pseudo-hobby da doposcuola). Aggiungo: ci sono voragini di assurdità nelle modalità promozionali e comunicative con cui i teatri ufficiali lanciano e sostengono le proprie stagioni. Faremo dei passi avanti soltanto quando capiremo che promuovere una stagione teatrale non è un fatto equiparabile alla pubblicità di una palestra, e che far conoscere un’ attività culturale a tutta l’opinione pubblica è già esso stesso una missione culturale, un fatto, un progetto cui dedicare capitoli impegnativi di risorse.

Giungo al termine di queste riflessioni con un auspicio che riguarda i due testi di nuova drammaturgia che i teatri nazionali saranno costretti a produrre. Lo chiedo anche agli amici di Teatro e Critica: per favore vegliamo tutti con vigile rigore affinché non prendano il sopravvento certi concorsi (pardon: premi, certo, ma vorrei dire rodei) che oggi sempre più spesso sono il lasciapassare per la produzione. Non uso mezzi termini: non solo è umiliante che la nuova drammaturgia possa essere rappresentata solo con l’etichetta di “The winner is…” tanto cara ai talent show, ma altresì (fateci caso) c’è una sostanziale differenza fra il premiare un testo riconoscendo un assegno all’autore (più magari un contributo alla produzione) e premiare il testo solo mettendolo in scena. Quest’ultimo caso porta implicito un sottotesto: produrre un nuovo testo è talmente fuori regola che lo si può fare solo come premio, come regalo, come strenna di Natale. Dopodiché, dal giorno dopo, Babbo Natale torna in Lapponia e per un anno non se ne parla più.

Stefano Massini

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2 COMMENTS

  1. Intervento pienamente condivisibile. Aggiungo solo, a margine dell’ultimo paragrafo, che il ruolo anomalo assunto da certi premi si deve anche alla carenza nei teatri di figure professionali competenti nella lettura e selezione dei copioni – e specificamente retribuite per questo lavoro. Se le scelte (o commissioni dirette) di testi non saranno ben ponderate, motivate e poi sostenute dalle direzioni artistiche, la “quota” di due nuovi copioni all’anno risulterà solo una forzatura burocratica, alla fine controproducente.
    Grazie e buon lavoro,
    Renato Gabrielli

  2. Condivido in pieno. Pensare di riformare il teatro senza occuparsi e pre-occuparsi del pubblico (o dei pubblici, non importa) è miope e parente prossimo dell’ennesimo fallimento. Gli spettatori, trascurati anche quando vengono adulati, si stanno annoiando, il teatro non lo capiscono più né lo desiderano, e tanto meno ne traggono conforto. Le platee sono vuote, non lo vedete? A meno che non ci sia in scena il gran divo del momento, attrazione mediatica, e quel pubblico, tanto numeroso quanto avido di ‘eventi’ ride quando ci sarebbe da piangere e piange quando si potrebbe ridere. Finge di capire.
    Fate qualcosa.

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