Short Theatre 9 riapre il discorso sulla comunità teatrale romana
In teatro le parole abitano più o meno soltanto due forme espressive: quando un concetto raggiunge una sonorità univoca può essere l’ascolto diretto a fornirgli contraltare – e allora parleremo di monologo – quando invece l’ascolto è indiretto, ossia quando il concetto giunge a un ascolto terzo attraversando l’attenzione di un referente interno all’opera, in tal caso si parlerà di dialogo, forzando così un doppio piano di relazione: quello tra la scena e la platea, da un lato, di contro quello tra la scena e sé stessa.
In una Pelanda dissanguata che non squarta più maiali da molti e molti anni, Short Theatre 9 sceglie con cura le “parole” in cui riconoscere “rivoluzione”, le stira dal preserale fino a tarda notte pur lasciando che il tempo, l’estensione, ne attenui la parabola sonora.
Dopo il festival c’è il dopofestival. Lo dico a beneficio dei tanti accorsi in una serata disco nei “rimessini” dietro il Big Bambù, sull’acciottolato dell’ex Mattatoio di Testaccio. Ché “dopofestival” non è un nome di fantasia di una serata danzante (se ne parlò anche in occasione della riapertura del Rialto Santambrogio). Ma ciò che resta – o dovrebbe – di un profluvio artistico, la distensione di un processo culturale, la catarsi di un’assimilazione rigorosa. Insomma è l’atto conclusivo dell’arco rivoluzionario, parabolico, che le parole scambiate compiono per tornare al punto di partenza, nel luogo in cui germineranno nuovo pensiero.
Eppure è invece un po’ difficile il “dopo”, non rende giustizia di un prima che in contrario pone questioni importanti d’estetica ed etica, poi la stessa cosa, in una città che ha sovvertito la prima per non occuparsi della seconda, tradendo la connessione irrefutabile in cui sono coinvolte. L’arte è tutt’altro che primitiva, si avvale della formula compositiva per essere, si avvale dell’artificio. Primitivo è il ritorno a una comunicazione non verbale di due diversi tipi: una prima cui le parole non servono, di scambio emotivo e pulsionale, una seconda cui le parole sono vietate dal disturbo, dalla massificazione dell’aggregazione compulsiva in cui la comunicazione “smette” di essere verbale perché smette proprio di essere, abbandona e si abbandona a una dispersione che catarsi non è, ma potenziamento di decibel che illuda vitalità pur – in fondo a tutto – negandola.
Girando tra le palizzate del bar, forzando gli occhi e le spalle per passare d’ambiente, l’effetto vintage di un assembramento umano raccoglie la sfida di restaurare l’antica immagine bestiale, assale un’immagine di Pieter Bruegel che d’improvviso si trasforma nella sua nemesi, inasprisce i caratteri in una tela di Hieronymus Bosch che sfuma visi umani in un’ombra tradimento della luce, là dove un ghigno trasfigura l’estremo dei lineamenti.
Tra le onde di sonorità smarrite e visi travisati, simile a me vagavano sparuti gruppetti usciti dalle sale teatrali e disciolti in una folla suturata ai margini, satura di sé stessa e impenetrabile; tra di essi qualche singolo avventuriero della smargiassa oscurità testaccina, rimasto come un fiore di giorno a fare il bello di notte, vagava simbolicamente sorseggiando qualcosa che confermasse uno status, una presenza, con gli occhi residui di un folgorato da bloody mary “sulla via del tabasco”. L’incontro lì in mezzo, uno degli ormai “storici” occupanti del Valle in una delle prime uscite oltre l’occupazione. Ci salutiamo, senza dirci niente come cospiratori di una serata d’altri ci allontaniamo giusto il poco per dirci parole, raccontarci cos’è stato l’incontro con il Teatro di Roma, come si sta delineando questo primo passaggio di un processo innovativo in estremo e avvincente divenire, questa tappa di avvicinamento a una concezione mai formulata prima che sappia legare insieme il teatro e la città, l’esperienza rappresentativa e quella partecipata, in una forma ibrida capace di proporre un modello da studiare, capire, tentare. Noi due, a parlare. Ci siamo domandati cosa sarà di questi tre anni, tornati con la memoria a quel giorno in cui il teatro indipendente romano, prima di vedersi coinvolto in Perdutamente prima e sconvolto perdutamente poi, aveva iniziato a dialogare con il Valle Occupato. Si pensava, ieri, che forse sarebbe il caso, in “questa città che affoga senza il mare” (va bene, cito una canzone ignota dei New Trolls ne sono consapevole), di riattivare quel dialogo, riavvicinare mondi nel momento in cui possano essi diventare ponti verso un mondo più grande, “comune”, come il bene da difendere. Voci, le nostre, parole in forma di dialogo. Per un altro dialogo da riprendere. Di là, poco lontano dal dopofestival, dove chiude il cerchio la “rivoluzione delle parole”.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Leggi gli altri viaggi di Atlante
Leggi altri articoli su SHORT THEATRE