Amleto di Andrea Baracco apre la stagione del Teatro Argentina per Romaeuropa Festival 2014
Una figura che entra dall’estremo ingresso laterale in platea e un faro nel buio, peregrinante tra una ferita e l’altra che i raggi squarciano fulminei nei nostri occhi: è Orazio il primo a salire in palcoscenico, è la sua temperanza a guardarci guardare dalla ribalta. Quando il sipario tagliafuoco si apre Elsinore, il castello e i suoi spalti si raggrumano in una dimensione totalmente essenziale eppure d’emblée assolutamente incisiva: nuda del tutto la scena pensata da Luca Brinchi e Roberta Zanardo (Santasangre), con ballatoi e mantegni a vista, la sua configurazione è definita da una quintatura nera semitrasparente, quasi impercettibile rispetto ai grandi pannelli di craighiana memoria che celano l’alcova di fondo e su cui si proiettano luci e immagini definendo lo spazio, le scene, le situazioni drammatiche. Montagne russe, una foresta di rami a canneto, fluidi sinistri e sezioni corporee di braccia, di gambe e mani, di volti, sono riproduzioni macroscopiche degli interstizi della mente, dell’anima. Fra luci alogene e i toni bruni dei costumi, un’aura cianotica fluttua appropriata e costante sui quadri decretandone la qualità estetica. Incisiva si diceva della scena e tale resta nel ricordo fino al punto di ingurgitare in parte le figure, di proporsi imperante alla fruizione quale componente in cui si acclara forse l’idea più forte dell’allestimento intero.
L’Hamlet con la regia di Andrea Baracco in prima nazionale (dopo il debutto allo spagnolo Festival di Almagro) al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival – inserito all’interno di Shakespeare alla nuova italiana, rassegna di nove spettacoli che il Teatro di Roma dedica all’opera del drammaturgo inglese – era un evento atteso, il prodotto performativo di quella fucina di incontri e scambio che fu Perdutamente. La factory raccolta nell’autunno del 2012 abitò il Teatro India prima della chiusura per ristrutturazione, da un’idea dell’ex direttore Gabriele Lavia che qui dà volto e voce al fantasma di Amleto padre.
La leggenda del principe di Danimarca è nota quanto la sua trasposizione teatrale: la madre Gertrude sposa lo zio Claudio, divenuto re dopo l’assassinio del fratello; sarà il suo spettro a rivelare ad Amleto l’orrore dell’intrigo e a istigarlo, fra crucci e tormenti dello spirito, a una vendetta che finirà per tutti nel sangue; e poi Ofelia con la sua morte che regalò a John Everett Millais ispirazione per un quadro celeberrimo, la malattia del legame quasi erotico tra madre e figlio, la meschina inconsistenza di Polonio abbattuta dietro una tenda, l’orgoglio di Laerte, il metateatro della “Trappola per topi”. In questo Hamlet della vicenda non si perde nulla, fatta eccezione per i tagli che riducono a due gli atti e sfoltiscono il numero dei personaggi a dieci e di circa la metà la durata della rappresentazione, come si conviene a un pubblico odierno. La struttura resta sostanzialmente quella dell’originale, con le scene segnate da cambi a vista nel calo delle luci; alcun rimaneggiamento sostanziale interviene sulla drammaturgia, qui curata da Francesca Macrì di Biancofango, se non fosse per l’infrangersi del verso shakespeariano, diluito in una contemporaneità del parlato che non affonda e non trascina, restando in bilico tra ieri e oggi. Le incursioni ammiccanti non travalicano il ghigno, il sorriso di un momento, le interpolazioni da Le voci di dentro («’E muort so assaië. So cchiu e muort che i vivi») di Eduardo De Filippo e A livella di Totò non costituiscono per il tema della morte uno slittamento pregnante e cadono a vuoto nel contesto generale della rappresentazione; stessa cosa vale per lo spostamento in conclusione del monologo “essere o non essere”, oscuramente, almeno per chi scrive, demandato a Orazio (Michele Sinisi).
La direzione scelta dalla regia di Baracco è limpida e permette di ravvisare una linea di coerenza che la rende riconoscibile guardando ad altri suoi lavori, pregio che tuttavia conserva in seno alcune debolezze. Non è difficile dunque ritrovare la cifra già appartenente al suo Giulio Cesare, l’uso simbolico del gesto nell’azione o del colore, basterà pensare alla vernice rossa che tingeva lì la fine di Bruto e Cassio ora convertita nel nero ottenebrato della tragedia. Una certa omogeneità caratterizza la centratura delle interpretazioni, rispetto alle quali emergono il Claudio di Paolo Mazzarelli e l’Amleto di Lino Musella, in netto contrasto con l’immagine del principe biondo e “virgulto” consegnata a molti da Lawrence Olivier o dalla versione cinematografica di Kenneth Branagh; dubbio maggiore interessa a tratti la credibilità di un’Ofelia la cui follia e il cui dolore appaiono abbastanza superficiali non beneficiando delle salite tonali del recitativo, strozzate, probabilmente acerbe.
Eppure tolto l’impianto visivo, è piuttosto una anzi la visione a mancare: pur sposando, per convinzione, la tesi che decreta l’attualità di un classico anche e sopratutto in assenza di stravolgimenti radicali, se lo spettacolo non vola oltre l’arco di proscenio, se il fiele del dramma non ci aggredisce lo stomaco, se dall’iride non si insinua sino a contaminare il cuore, davvero per Amleto «il resto è silenzio».
Marianna Masselli
Twitter @Mari_Masselli
Romaeuropa Festival, Teatro Argentina, Roma, Settembre 2014
Guarda le interviste a fine spettacolo, realizzate alla prima del 26/09/2014
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HAMLET
regia Andrea Baracco
drammaturgia Francesca Macrì (Biancofango)
scenografie multimediali Luca Brinchi e Roberta Zanardo/Santasangre
con Lino Musella, Eva Cambiale, Paolo Mazzarelli, Michele Sinisi, Andrea Trapani, Woody Neri, Livia Castiglioni e Grabrile Lavia in audio e video
produzione Teatro di Roma, Festival Romaeuropa, 369gradi
coproduzione Festival Internacional de Teatro Clàsico de Almagro
in collaborazione con Tfddal-Teatro Franco Parenti, La Corte Ospitale, ATCL Associazione Teatrale tra i Comuni del Lazio
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