Valle Occupato. Tre anni dopo un nuovo primo giorno
Tre anni dopo. In certi film c’è un momento in cui ci si ritrova, con un salto cronologico, oltre il punto in cui si è svolta buona parte dell’azione. In quel tempo, successivo, i protagonisti hanno facce invecchiate, sono segnati dal trucco e dall’evolversi delle loro vicende, sono oltre i fatti o meglio in altri fatti coinvolti, eppure li prende un ricordo, qualcosa non torna e scardina i piani temporali, qualcosa li riporta al punto in cui la narrazione s’era interrotta.
Alla fine dei tre anni e poco più di occupazione del Teatro Valle (qui i fatti più dettagliati), l’immagine è un po’ la stessa: non ci sono facce affrante, non c’è rassegnazione, c’è una sorta di presa d’atto di una nuova condizione, una dichiarazione volitiva perché rilanciare sia non l’ultimo atto di una fase in chiusura ma il primo di una fase ancora tutta da inventare. Eppure tre anni sono passati, non sono stati un soffio d’aria ma la folata a spinta di un vento atteso stagione dopo stagione, nel mezzo delle quali gli occupanti si sono radicati, hanno intessuto rapporti con gli organismi culturali italiani ed europei, teatrali e non, hanno ribadito la necessità di fare, predisporre, valorizzare e soprattutto godere la cultura, di farsi veicolo di un contagio che interpreti il tocco come uno scambio, la consegna come un libero dono di ciò che non esiste se non nell’origine e nella fine, ma che ha come paradossale dote di concretezza la sua inesistenza di mezzo.
In questi anni gli occupanti del Teatro Valle, definitisi da subito come “Lavoratori e Lavoratrici dello Spettacolo”, hanno costituito sulla base di una spinta necessaria la Fondazione Teatro Valle Bene Comune, hanno riempito una sala teatrale di persone, hanno riportato in un teatro il concetto di agorà, hanno cioè fatto del palcoscenico e del foyer dell’antica sala nel centro storico di Roma un nucleo fondante pensiero, il fulcro di una nascente coscienza individuale e collettiva. Di fatto, dunque, hanno deliberatamente scardinato l’ordine burocratico cui soggiace la gestione dei beni culturali, riportando in alto l’esercizio perduto, antico, di costituire pensiero attorno all’azione, corredarla di concreti atti di trasformazione, hanno avvertito e segnato il passo dell’evoluzione culturale, hanno impiantato i semi di una germinazione futura ormai oltre lo steccato della dimenticanza.
Per dire tutto questo è stato necessario attraversare tre anni di formazione artistica creativa, di apertura di un teatro verso una popolazione che aveva fino ad allora cancellato dalla propria agenda l’espressione “andare a teatro”, svuotata di senso negli anni della depressione che l’ha resa un’esperienza elitaria, di disgustosa altezzosità. Ma soprattutto è occorso tornare a quei primi giorni di occupazione, quando cioè il lancio verso l’ascolto del mondo intellettuale denunciava un bisogno di partecipazione debordante, arricchito di solitudini artistiche da far confluire in un luogo che le sapesse confrontare, condividere, contaminare. Da allora molto è cambiato, ma si entrò nello stabile settecentesco con una spinta propulsiva tale che il palco divenisse da subito infuocato di parole ferme, di slogan ariosi come il famoso «Com’è triste la prudenza», preso in prestito dal drammaturgo Rafael Spregelburd, uno che di rivoluzioni culturali se ne intendeva; c’era un atto di fede alla propria vocazione per le arti, per la detonazione delle parole in intervento concreto e semanticamente vischioso, decisivo alla rinnovata formazione di un popolo in rotta di collisione con la propria storia culturale.
Quel giorno si entrò perché la politica aveva «smesso di essere un interlocutore legittimo», ora forse il processo di maturazione dell’una e l’altra parte ha portato a ripensare la relazione, a far cioè riavvicinare i due concetti di Bene Pubblico e Bene Comune in questi anni al centro di grande e conflittuale dibattito. E allora stare al Valle in questi primi giorni di “disoccupazione” vuol dire rimisurare la propria distanza, rifare i conti della propria vocazione a partecipare e ridire. Per capirlo, basta alzare lo sguardo. Bambini. Di varie età. Qualcuno lì dentro ci è nato, qualcuno ha iniziato a crescerci, ognuno di loro avverte a un certo punto una sorta di scossa uditiva, sente l’applauso farsi roboante tutto attorno, sono come intontiti, stanno imparando direttamente cosa sia l’atto di presenza, prima di potersi dire presenti. Potranno dirlo un giorno, riallacciando i fili di ricordi infantili. Ci sono figli nati al Valle, al Valle cresciuti, amori sbocciati e pensiero fluido, smarginato oltre il confine di una cultura cristallizzata in categorie; guardando loro si comprende quale sia la linea di contatto, ciò che trattiene in uno spazio al fine di renderlo luogo: sono una comunità, a questa si riferisce il concetto di Bene Comune, non si tratta dunque di “bene in comune”, “di tutti”, ma direttamente riconducibile a un nucleo tribale che sta mutando e si sta dando una struttura, sta cioè trasformando dal basso un Bene Comune per di nuovo – come accade a ogni comunità che cresce – farlo diventare Bene Pubblico.
Insomma, non è il concetto stesso di rivoluzione a definire un “ritorno”, un “rovesciamento” che riporti a uno stato originario? E allora quella del Valle è una rivoluzione, in corso d’opera e in via di comprensione giorno dopo giorno, sgusciante e vitale oltre le differenze e i contrasti, che combatte lo sterile legalismo con la feconda legittimità, aggirando anche ostacoli di dubbio gusto e sinistre intenzioni.
Ci vogliono tre anni a fare tutto questo? Bastano tre anni? Un fiume che sgorga da sorgente non sa, dove andrà a finire. Se il fiume nasce da sfere alte, altissime e soverchia ogni piccolo sasso per trascinarlo via, se scorre e sovrasta l’esistente, esso per la quasi totalità della discesa ignora la propria destinazione. Ma sappiamo dai libri di geografia e dall’esperienza diretta, partecipata di un’immersione che ci bagna di quella stessa acqua, che il fiume, alla fine di tutto, non ha portato mai altro che a Valle.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Tanto ottimismo, vedo. Sarei contento di illudermi un poco con te/voi/loro che la politica sia diventata rispetto a tre anni fa un interlocutore legittimo. Istintivamente dubito, ma saranno i decenni vissuti a roma sino a stamattina che mi fanno pensar male… 🙂