Spoleto e il Festival dei 2Mondi. Quai Ouest di Magelli e Ma/mains tenant le vide di Opera
Su e giù per Spoleto. Ci si inerpica dal basso verso l’alto e ritorno al punto di partenza, per la città umbra che è davvero Festival dei 2Mondi. Uno su, l’altro giù. E così tirando i polpacci in un’arrampicata tra le arti sceniche, si raggiungono tappe di un programma variegato, insomma come se, al pari di certe isole montuose autonome dall’entroterra, si andasse dal mare alla montagna con il solo passo d’ascesa. Ascesa, fin quasi all’ascesi. Il potere di una vocale insinua una divaricazione dell’esperienza: in basso il mondo dei grandi eventi molto frequentati in abito da sera pure di giorno, all’aperto o nei teatri cittadini, in alto una scalata che vira pian piano alla solitudine, al contegno della contemplazione. Insomma, due mondi. Mai così vicini, tra i vicoli di una città in salita.
Il primo mondo l’abbiamo incontrato al Teatro Nuovo Menotti per il viaggio di Paolo Magelli, direttore artistico del Teatro Metastasio Stabile della Toscana, dentro un’opera difficile del compianto drammaturgo francese Bernard-Marie Koltès: Quai Ouest, scritta nel 1985 solo quattro anni prima di morire, a quarant’anni, di AIDS.
Siamo in una periferia dell’esistenza, sia questa una concreta landa desolata e cupa in cui far interagire dei personaggi borderline, oppure sia uno spazio metaforico che di tali personaggi sviluppa fin da subito un’intimità fragile, ridotta in filamenti strappati la propria caratura umana. Koch Maurice (Paolo Graziosi) è un manager, ha un debito che per vari motivi non riesce, o pensa di non riuscire, a estinguere; la sua disperazione lo spinge fin a questo luogo finale, un luogo per morire dirà, in cui perdere definitivamente il contatto con ciò che lo opprime, ma anche con la vita. Lo seguirà Monique, una donna (Valentina Banci) che gli fa da assistente e cerca di dissuaderlo, calandosi in questo quartiere a sé stante, dimenticato da tutti. Proprio qui, tra i container portuali del molo, sul suolo terroso e sconnesso, vive una comunità derelitta formata da una famiglia – Rodolfe (Mauro Malinverno) e Cécile (Alvia Reale), con il figlio Carlos (Francesco Borchi) e la giovane figlia Claire (Elisa Cecilia Langone) – più due componenti esterni, due giovani: Fak (Fabio Mascagni), bianco fidanzato di Claire e manipolato da Carlos e Abad (Francesco Cortopassi), il “negro” che non parla mai e soltanto con la sua presenza pone un monito di giudizio, una forma morale girovaga per la scena.
Quai Ouest, tra i testi di Koltès, è dei meno rappresentati. Perché aspro, carico di una violenza compressa, di azioni non concluse, di allusioni sensibili al razzismo che restano laterali e pur sospinte da un tema emergente, ma soprattutto per la sua atmosfera scenica già troppo affondata in un’interpretazione, un non luogo teatrale già molto segnato, già luogo. Magelli non sfugge alla difficoltà, immaginando una regia stereotipata sia per ciò che riguarda l’ambientazione “brutta sporca e cattiva” (per citare un grande film del 1976 di Ettore Scola che ha imposto la proverbiale visione, in quel caso grottesca, oltre quella cinematografica), sia per ciò che pertiene alla restituzione del testo da parte degli attori, per la maggior parte – su tutti Graziosi è inascoltabile, nota di merito invece per Alvia Reale che fa quel che può – chiusi in un nucleo interpretativo sterile, relegati a dar parole ai ruoli ma senza che abbiano corpo; qui si manifesta una lontananza emotiva che non permette di partecipare alla vicenda, alla complessità di un testo che la scena (di Lorenzo Banci) non sviluppa. Anche alcune variazioni stilistiche, come la luce di un faro puntato in platea (alla maniera degli ultimi spettacoli di Antonio Latella), sembrano più un vezzo estetizzante, un diversivo privo di connotati drammaturgici. Ecco, dunque, la povertà espressiva. Si ha un’idea di Koltès di superficie, ferma al dipinto di una situazione strappata dal reale, espulsa dalla civiltà. Magelli la mette in scena, la rappresenta, ma non la sa incarnare.
Anima. Di anima ha bisogno l’arte. E allora l’ascesa è una corsa sudata fino alla Rocca Albornoziana. È lì che ha luogo la mostra Sconfinamenti #2, la mostra curata da Achille Bonito Oliva in cui il gruppo Opera di Vincenzo Schino e Marta Bichisao porterà la performance Ma/mains tenant le vide, ideale prosecuzione di Eco, vista al Teatro India a Roma durante i mesi di Perdutamente.
Basta un minuto di silenzio, uno spazio buio, una sonorità profonda e penetrante, per dimenticare la corsa fatta fin qui e un intero spettacolo appena terminato. La forza dell’arte sta nella compresenza, non si può fuggire di fronte alla struttura che lega Marta Bichisao, distesa, a un manichino di esile figura. Lei tiene i fili, la sagoma stilizzata di fronte a lei si muove al suo richiamo; manipola una forma speculare, in essa si riconosce pur sapendone la determinazione. Poi dalla cellula viene fuori, la sua danza vibrante si misura allora a una struttura poco lontano, la macchineria teatrale sembra produrre quell’opera di Alberto Giacometti, il bronzo del 1934 che reca il medesimo titolo; il movimento chiama lo sguardo di tutti i presenti, la fragilità della struttura è solo apparente, trae forza dai movimenti di lei con un gioco di rimando intellettivo, tra la donna di Giacometti e l’oggetto invisibile che sembra muovere si instaura così una sospesa, sorprendente, reciprocità.
Nell’opera di Schino c’è una cura limpida nel disegno e nella qualità evocativa, c’è una sensibilità architettonica che di questo spazio buio sa fare luogo teatrale, nucleo abitato in cui appare ed esiste qualcosa di ormai irrefutabile, presente e vivo in chi vi assiste. C’è nell’ambiente teatrale contemporaneo un gruppo come Opera che sta diventando sempre più riferimento eloquente, linea di confine, esempio di una qualità tecnica e una felicità espressiva oltre i limiti della rappresentazione. C’è un’idea, un luogo, una palpitazione. E l’anima che se la porta. Su e giù per l’anima nostra.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
QUAI OUEST
Approdo di ponente
di Bernard-Marie Koltès
traduzione Saverio Vertone
regia Paolo Magelli
scene Lorenzo Banci
costumi Leo Kulaš
luci Roberto Innocenti
musiche Arturo Annecchino
dramaturg Željka Udovičić
con (in ordine di apparizione)
Valentina Banci, Paolo Graziosi, Francesco Borchi, Francesco Cortopassi, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Alvia Reale, Mauro Malinverno
nuova produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana
in collaborazione con Spoleto57 Festival dei 2Mondi
MA/mains tenant le vide
progetto, coreografia, danza Marta Bichisao
cura della visione Vincenzo Schino
progetto e composizioni sonore Federico Ortica
scenografia Emiliano Austeri
video Paul Harden e Grazia Genovese
tracce poetiche Florinda Fusco
coordinamento Marco Betti
produzione CRT Milano/Centro Ricerche Teatrali
con la collaborazione di Indisciplinarte/Terni Festival, Associazione Demetra/centro di palmetta
in
sconfinamenti #2
A cura di Achille Bonito Oliva
Direzione creativa Elisabetta di Mambro e Franco Laera
Progetto e produzione Change Performing Arts
Coordinamento Virginia Forlani
Peccato che pochi abbiano visto quai ovest di adriatico, con alcuni attori veramente bravi, in un allestimento penetrante e pochissimo stereotipo. ma non era a spoleto
Caro Massimo, mentre scrivevo l’avevo tra i materiali perché ho pensato a lungo di vederlo. A Modena lo mancai per poco, mi è rimasta la voglia ma mi pare fosse un progetto abbastanza stanziale, poco esportabile. Ne avevo sentito (anche da te) ottimi riscontri. Chissà non si riesca in futuro…al teatro dobbiamo questo primato, tra le arti, di sparire fugacemente e mai più mostrarsi. Forse gli corriamo dietro per questo 🙂