Dolore sotto chiave debutta con Saponaro al Napoli Teatro Festival
Il debutto dello spettacolo di Teatri Uniti e Francesco Saponaro al Napoli Teatro Festival non è stato privo di dubbi, polemiche, comunicati e qualche articolo d’opinione. Nato come una collaborazione con la compagnia Carullo-Minasi, l’allestimento si è poi ritrovato ad essere ripensato e adattato senza l’ensemble siciliano a causa di una divergenza di vedute con il regista. Toni non sempre temperati hanno accompagnato l’esclusione da parte dell’organizzazione associata del Festival e di Teatri Uniti, lasciando poco chiare le concrete ragioni di questa inconciliabilità che, in caso contrario, avrebbe certamente saputo restituire di Dolore sotto chiave, testo poco conosciuto e replicato, una messinscena pensata nella commistione di estetiche differenti. Tali presupposti lascerebbero dedurre ipotesi di scorrettezza o forse semplicemente routine di contrasto e, insieme potrebbero lasciar temere una certa approssimazione di “emergenza” nella preparazione. Il mestiere della visione però con le premesse deve fare i conti tra considerazione e distanza.
Dolore sotto chiave è opera di Eduardo De Filippo scritta per la serie di trasmissioni alla radio registrate alla fine degli anni Cinquanta (1959) e non allestita dal vivo prima del 1964 quando, senza avvalersi dell’interpretazione dell’autore che per l’occasione ne cura solo la regia, debutta al Teatro San Ferdinando dove oggi, a trent’anni dalla morte del drammaturgo, è stato riproposto. Rocco Capasso, lontano da casa per lavoro, al suo rientro dopo quasi un anno è ancora convinto che sua moglie Elena giaccia moribonda su un letto all’interno di una stanza a cui egli non può accedere, per timore che qualunque emozione la stronchi e in cui tuttavia la vita non sembra voler “finalmente” abbandonare del tutto la donna, liberandolo. Avvilito ed esasperato dalla sospensione esistenziale dovuta alla situazione, spinto pure dall’amore maturato negli ultimi mesi per Anna da cui aspetta un bambino e che rischia di perdere non potendo regolarizzare la loro relazione, l’uomo decide di violare il capezzale di Elena in uno scatto di rabbia, quasi a volerla uccidere. Solo così ha modo di scoprire che in realtà nessuna sposa lo lega a un regime di rinunce dato che la sua, scomparsa un anno prima, non è nient’altro che un’entità figurata, una catena nominale creata e protetta dalla sorella, Lucia, la quale convinta che il dolore della morte lo avrebbe devastato decide di tenerlo all’oscuro di tutto, alimentando in primis per se stessa un modello di perfezione coniugale generato dalla frustrazione della sua solitudine di “zitella”.
Facile nella vicenda cogliere l’eco di sfumature pirandelliane, ravvisare le possibili declinazioni di “umorismo” che riportino a quel “senso del contrario” e al suo maestro siciliano. Saponaro nella sua versione sembra chiaramente riprendere tale influenza sino a renderla determinante per sue scelte di regia: inequivocabile infatti l’introduzione del prologo del becchino ispirato dalla novella I pensionati della memoria, peraltro straordinariamente interpretato da Giampiero Schiano nella sfacciata purezza linguistica di un napoletano che si presenta al pubblico con estrema forza e riuscita espressiva, quasi fosse epidermica, tattile, come poche capace di trasfigurare il volto con la fonesi. Appropriata e discreta, l’interpretazione lascia intendere il lavoro consapevole compiuto dagli e sugli attori, che cooperano omogeneamente all’efficacia di una performance in viaggio tra fedeltà e ricerca di una lettura specifica, non mancando di ospitare interventi dello stesso De Filippo – un paio di tracce audio fuori campo tratte dall’originale – o mutuando altre immagini conosciute: Lucia e Rocco che si rivolgono in preghiera verso l’alto, frontali al pubblico, facilmente richiamano alla mente alcune scene di Massimo Troisi e della sua Smorfia. La quadratura del cerchio si inscrive in una scenografia che rinuncia ai fondali e alle riproduzioni tipiche eduardiane per limitarsi al necessario senza incappare nella penuria visiva: un unico tavolo centrale, poche suppellettili e due porte-bare ai lati del fondo nella dominanza di beige e colori del legno. La gestione dello spazio scenico è sufficientemente reticolare e dinamica da lasciar intuire dimensioni altre sia reali per lo sguardo sia metaforiche: il varco della porta e quindi l’ingresso nella cassa diventano entrate e uscite dalla morte di ogni giorno, dalla necrosi del silenzio, dell’incomunicabilità, dell’assenza di fiducia, dell’impossibilità di ribellione quotidiana. Un alito di luce, un barlume di resistenza resta nella candela, elemento lirico di non astrusa interpretazione, che dal prologo aleggia sino alla conclusione come un simbolo che “sostiene” le azioni, senza mai “invadere” la scena.
Il lavoro ha il privilegio di aver compreso che a volte stupisce non rimanere delusi quando si osserva maneggiare la “tradizione” più di quanto possa far effetto invece il gusto di stravolgere tout court: la profondità è una discesa apparentemente statica oltre i confini del conosciuto.
MariannaMasselli
Twitter @Mari_Masselli
Napoli Teatro Festival, Giugno 2014
Visto il caso suscitato dalla vicenda Saponaro-Carullo/Minasi, la redazione di Teatro e Critica suggerisce la lettura di questi link che possono dare una più ampia lettura degli eventi.
Il dolore di Carullo-Minasi di Renato Palazzi
Al Napoli Teatro Festival Italia era discutibile proprio Napoli di Enrico Fiore
Un Dolore sotto chiave in “odore” di Pirandello ovvero la morte è una credenza di Dario Tomasello
Il «Dolore» di Eduardo prende la strada della farsa di Enrico Fiore
Quel dolore sottochiave di Eduardo di Giuseppe Distefano
Comunicato stampa Napoli Teatro Festival (non è intervenuto alcun comune accordo con la Compagnia Carullo Minasi)
DOLORE SOTTO CHIAVE
di Eduardo De Filippo
regia Francesco Saponaro
con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano
scene e costumi Lino Fiorito
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
produzione Teatri Uniti, Napoli Teatro Festival Italia, Università della Calabria
Illustrazione di Serena de Carolis, clicca per ingrandire