Jesus Christ Superstar torna in scena con Ted Neeley nei panni di Gesù Cristo
Quella di Jesus Christ Superstar è la storia di una leggenda. Alla fine degli anni Sessanta si iniziò a far largo una concezione religiosa che deviasse dalla dottrina cattolica, si sviluppò quindi meglio una religione “originaria”, essenziale, che ravvivasse il senso del sacro riconducendolo alla dimensione dell’umano, perché fosse di contrasto all’impero temporale della Chiesa che ne aveva presumibilmente tradito il senso primario. Al centro di questa fase, non certo nuova ma di ritorno ciclico in varie epoche, fu la figura del Cristo, secondo un ribaltamento di percezione che rivelasse non la parte umana nel divino ma l’esatto contrario, quel carattere sofferente dello spirito recluso nel corpo dell’uomo. Fu così che anche l’arte, seguendo questa evoluzione del pensiero, segnò a tinte forti la storia umana del secondo Novecento, producendo opere tese a rintracciare questa spiritualità immanente. Tra di esse Jesus Christ Superstar, nato come musical nel 1970 (lo stesso anno in cui in Italia Fabrizio De André pubblicava La Buona Novella) per la composizione di Andrew Lloyd Webber con testi di Tim Rice, divenuto pochi anni dopo (1973) un film di straordinario successo planetario (per la prima del film a Roma fu addirittura usato il Teatro dell’Opera), firmato Norman Jewison e interpretato da attori divenuti parte della leggenda, come Carl Anderson e Ted Neeley. È quest’ultimo, a oltre settant’anni, che dopo averlo interpretato nel film e aver vissuto una vita particolare da uomo creduto un mezzo santo, in una comoda tunica bianca dà ancora vita proprio al messia, come nella versione diretta da Massimo Romeo Piparo, nel XX° anniversario dalla prima rappresentazione italiana, che conta sempre in scena anche la rockband dei Negrita (assieme a un’orchestra invece nascosta in alto), Shel Shapiro nei panni di Caifa, Pau cantante della band è Ponzio Pilato, il giovane Feysal Bonciani nel ruolo che fu di Anderson, Giuda, e la voce di Simona Molinari a ondeggiare la modulazione che servirà al ruolo di Maria Maddalena.
Ora, il musical italiano risente probabilmente della scarsa attitudine alla spettacolarità, per la tradizione che ci lega al melodramma e in genere alla provenienza letteraria, di parola, del nostro teatro. Ma il grande pubblico (diversamente dal teatro d’arte) segue calorosamente le grandi produzioni musicali, mutuate per la maggior parte da partiture d’importazione, da successi d’oltreoceano.
Dunque sorgono delle domande: accade in un teatro, sottoscrive il patto tra palco e platea, si compone per una fruizione ampia che prevede un processo, un’evoluzione, un’espressione. Si tratta pertanto di uno spettacolo. Ma cosa c’è, in esso, del teatro? Quali elementi differenziano queste forme da ciò che solitamente troviamo nei teatri d’arte? Più che recensire uno spettacolo, quindi, in questa sede si tenterà una piccola breve analisi esperienziale – priva di giudizio preventivo – di una riconosciuta diversità.
L’opera rock, che ripercorre l’ultima settimana della vita di Gesù, inizia in dialogo tra la musica dei Negrita e l’energia del nutrito corpo di ballo, ventiquattro tra acrobati e ballerini, con le coreografie di Roberto Croce. La relazione che si innesca tra i due elementi – musica e ballo – vive di un deciso spostamento verso il secondo, vissuto però come ensemble che lambisce i contorni dello spazio intero, non lo abita ma ne traccia il perimetro, lo percorre e non ci vive in mezzo; a ben vedere dunque la prima indagine distingue tra corpo che balla e corpo di ballo, in cui sembra che il danzatore corrisponda a un disegno paesaggistico e non sia condotto ad accentrare il “discorso” di un’opera su di sé, sul corpo dunque, la carne del proprio veicolo significante.
A centro scena (di Giancarlo Muselli ed elaborata da Teresa Caruso) la band è sistemata su una pedana rotante che si volta e diviene il colonnato del Tempio; il resto è occupato da una gradinata circolare; sul display alle spalle appaiono versetti della Bibbia e frasi dal testo delle canzoni, talvolta invece appaiono fondali proiettati ma sono anch’essi paesaggi, non hanno altra funzione che descrittiva, panoramica, come se l’elemento parlasse teatralmente la stessa lingua dell’azione che è chiamato a circondare, mentre diversamente nel teatro che chiamiamo d’arte l’aumento della visione suppone una moltiplicazione di piani, fin quasi al contrasto con l’azione dal vivo, con risultati in ogni caso corroboranti.
Un’ultima riflessione strutturale riguarda i ruoli, cui non corrispondono i personaggi. A dar loro i caratteri sono elementi estranei all’interpretazione, per la maggior parte è funzione che spetta ai costumi (realizzati da Cecilia Betona): mentre nel teatro d’arte è in uso un altro sistema di riferimento e ancora si parlerà di moltiplicazione di piani espressivi anche suggerendo conflitto di elementi, questa forma predilige invece, per così dire, che l’abito faccia il monaco e quindi si rapportino in parallelo le scelte di forma e di contenuto.
Lasciando solo al godimento di ridire la grande qualità vocale che caratterizza tutti i protagonisti, primo tra tutti lo stesso Neeley invidiabile tenore di acuti straordinari, l’unico punto su cui invece occorre giudizio è la frustata retorica che giunge al tempo della crocifissione, quando cioè le proiezioni ripercorreranno, per ognuna delle trentanove leggendarie vergate, altrettante storie di violenza e in genere mostreranno immagini di democrazia raggiunta o tradita, facendo dialogare anche qui piani paralleli, raggiungendo uno spessore minimo e decisamente superfluo.
Potremmo allora concludere che questo musical di grande successo sviluppa per strati disgiunti la propria evoluzione, presentandosi con un codice bidimensionale, cui per struttura pone da sé stesso limiti; il gesto teatrale, elemento linguistico primario, tende a sottolineare ciò che sta avvenendo, l’azione è conchiusa in un plot e ad esso resta servile, così che nel finale, gli attori dell’opera potranno facilmente lasciare i personaggi, perché in essi non vi sarà stata indagine: avranno così estensione ridotta, frutto di raffigurazione, non di interpretazione.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Fino al 30 maggio 2014
Teatro Sistina
Roma
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JESUS CHRIST SUPERSTAR
con Ted Neeley
con Simona Molinari, Shel Shapiro, Feysal Bonciani, Paride Acacia, Emiliano Geppetti
con le musiche dal vivo eseguite dai Negrita, e Pau nel ruolo di Pilato
Uno spettacolo di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber
coreografie Roberto Croce
Direzione musicale Emanuele Friello
Scene Giancarlo Muselli con Teresa Caruso
Costumi Cecilia Betona
regia Massimo Romeo Piparo
Leggendo l’ultimo paragrafo, deliziosamente vuoto e privo di significato (nel quale segnalo la perla di “se stesso” scritto con l’accento sul “se”) mi viene in mente Totò: “ma mi faccia il piacere”……..
Gentile Ercole, solitamente da un po’ evito di rispondere al livore della “gente” che scrive i commenti, ho sempre meno tempo per alimentare il disequilibrio delle persone. Ho già scritto abbastanza. Ha voluto fare la sua performance, prego, l’abbiamo approvata. Applausi.
L’unica nota su cui mi preme una risposta è al proposito della “perla”. Ho passato un bel po’ di anni all’università e nonostante la molta distrazione mi sono imbattuto nel puntiglio opportuno di linguisti come Luca Serianni, membro dell’Accademia della Crusca e vicepresidente della Società Dante Alighieri, il quale sosteneva la tesi, discutibile senza dubbio, di un “sé stesso” accentato. Certo su molte questioni la linguistica accademica magari non è in grado comunicare con il resto della popolazione, che bello avere queste occasioni per correggersi a vicenda non crede? Comunque il dibattito è e resta aperto. La vedo particolarmente attento e appassionato. Vuole partecipare?
Saluti
SN
A parte “sé stesso”, che si può scrivere in tutti e due modi, è meglio che riscrivi il tuo articolo, Simone, e riguardati il film di Nanni Moretti “Palombella rossa”, specialmente la scena “le parole sono importanti”.
https://www.youtube.com/watch?v=LLhO5oiFFAs
Sono davvero sbalordito dal livello di confronto critico stimolato da Elio Marco! Certe tesi sono proprio inattaccabili. Immagino che, dopo un commento simile, per Nebbia i motivi che dovrebbero spingerlo addirittura a “riscrivere l’articolo” debbano essere assolutamente inequivocabili. Io a volte mi chiedo da dove arrivi tanta arroganza. Linguisti e non linguisti che siano. Grazie, sinceramente e come sempre, di leggerci, ma in certi casi davvero mi cascano un po’ le braccia.