Recensione di Mangiare e bere. Letame e morte. Di Davide Iodice. Visto al Teatro Valle di Roma
Da amanti del teatro, da spettatori appassionati, c’è una cosa – più di tutte – che cerchiamo. Un concetto di cui, in modi molto diversi, hanno parlato tutti i grandi teorici e praticanti della scena. Da Denis Diderot a Jacques Copeau, dai maestri del Nô a Peter Brook, da Antonin Artaud a Eduardo De Filippo. È la sincerità. Intorno a questo bisogno, che mette in gioco la presenza vera e propria dell’occhio che guarda, comodo o scomodo nel suo ruolo di spettatore, ci sarebbe da spendere lunghe pagine, mettendo in connessione tutte le energie che – pur in lavori lontanissimi nel linguaggio – discutono quel principio. Ma ancora più semplice è procedere con un esempio.
Al Teatro Valle Occupato di Roma è andato in scena Mangiare e bere. Letame e Morte di Davide Iodice, drammaturgo e regista del vesuviano che ha, anche altrove, sempre dimostrato creatività, ingegno e una certa dose di coraggio in quella che ormai con troppo agio viene definita “sperimentazione”. Ma questa volta il risultato è qualcosa di notevole, un ottimo esempio di comunione incrociata tra artista, pubblico e materia trattata. Sul palco del Valle – che in questa occasione ospita anche gli spalti per il pubblico – si apre uno spazio vuoto, il proscenio è occupato da qualche rudimentale oggetto: un secchio d’acqua, un grumo di creta umida, un telefono, uno specchio. Alessandra Fabbri ci accoglie con faccia pulita e umile e indosso abiti larghi e lisi. La sua figura è docile e sommessa, ci racconta una «storiella che la fa piangere»: due pappagallini inseparabili abitano nel suo giardino; alla morte del maschio la femmina è sperduta e a nulla servirà porle davanti al cibo uno specchio che dovrebbe illuderla di una presenza simile alla sua. La sua disperazione è incontrollabile. Così parte la danza.
Una voce fuoricampo affronta pacatamente una lunga spiegazione – di stampo quasi scientifico, e torna la passione di Iodice per l’etologia – sulle caratteristiche dell’“animale da palcoscenico”: le sue abitudini, le sue reazioni, le sue passioni irrefrenabili. Fabbri si denuda quasi subito, mostrandoci il corpo di una fine danzatrice classica lasciato andare al sovrappeso. Ormai è divenuto stereotipo tanto il nudo in scena che vuole scandalizzare quanto quello che vuole criticare ironicamente quella provocazione. Per una volta non sentiamo l’ingombro di nessuna di queste due didascalie, siamo liberi di godere del movimento espressivo: complice un agio davvero raro di Fabbri, Iodice riesce a trovare una terza via, quella, appunto, della sincerità. La voce off passa in rassegna tutte le abitudini dell’“animale”, soffermandosi sull’impossibilità di sottrarsi all’esposizione delle proprie fragilità. Come il pappagallo rimasto solo non può sostituire a una presenza altra il proprio doppio ma ha bisogno di intonare il verso con quello di un suo simile, così la danzatrice si spende, di fronte al pubblico, in estenuanti danze che sono quasi un rito estatico di degradazione, imitando una foca ammaestrata, versandosi addosso un litro di vino, affondando la faccia nella creta che adesso va a modellare un sesso maschile tra le gambe muscolari e guizzanti di questa sorprendente performer.
In questo insolito viaggio nella terra di Dioniso, che affronta senza pretenziosità il tema dell’animalità e della necessità di un universo espressivo preverbale in cui artista e spettatore si incontrino, si sente in parte il peso di musiche troppo invadenti, più del dovuto intente a imporre emozioni che sarebbero già lì e di un coinvolgimento fisico dello spettatore forse superfluo e un po’ ammiccante. Nel contrasto tra il nudo e le scarpette da punta irrompe la grazia di un corpo così com’è, un animale affondato nella propria stessa potenza espressiva e che, parafrasando il testo, è adatto anche alle anime affette da solitudine, perché il contatto richiesto è fieramente unilaterale, governato da uno sguardo che può restare a parte. Iodice e Fabbri ci ricordano che esiste un modo per rompere i codici senza rimanere feriti da quegli stessi frammenti. In altre parole, per una volta decostruire, nella maniera più fertile e diretta, ha significato costruire.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
visto al Teatro Valle Occupato di Roma in aprile 2014
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MANGIARE E BERE. LETAME E MORTE
Studio N°1 per danzatrice sola
con Alessandra Fabbri
drammaturgia e regia Davide Iodice
coreografia Alessandra Fabbri e Davide Iodice
costumi Enzo Pirrozzi
allestimento Gennaro Staiano
produzione interno5