Eduardo De Filippo al Teatro Valle Occupato. A trent’anni dalla morte
Parlare di Eduardo è tanto semplice eppure tanto complesso per quanti di teatro respirano e si nutrono: un universo intero, un’infinità di nodi, una miriade di aspetti esplodono dai suoi testi e dalla sua figura nelle tracce rimaste, in quello che persiste alla concretezza del presente, arrivando fino a noi, a trent’anni dalla morte. Perché Eduardo De Filippo è uno dei volumi dell’enciclopedia dell’arte della vita nel teatro e dell’arte del teatro nella vita; egli stesso sembra continuare a redigerle nel palpito delle parole, nel ghigno acuto e manifesto di un silenzio gravido, di una presenza sottratta solo all’afferrabilità della carne, ma non a quella dello spirito.
È stato il Teatro Valle Occupato a ospitare il terzo capitolo de I giorni e le notti. L’Arte di Eduardo, unico teatro fra la schiera dei centri universitari pensati come luoghi di accoglienza di questi atti di memoria o, forse, di riscoperta, nel trentesimo anno dalla scomparsa di Eduardo De Filippo. Lascia pensare allora che sia il Valle, occupato da quasi tre anni, a porsi una volta in più quale polo di attrazione dell’ennesimo evento significativo, in una capitale privata di alcune delle sue supposte realtà di sopravvivenza espressiva, depauperata dei propri fortini di resistenza culturale. La cancellazione del cartellone del Palladium, lo sgombero dell’Angelo Mai e la poltrona della direzione dello Stabile ancora vacante sono episodi che getterebbero meno timori di sconforto se fossero attutiti dalla percezione di una contropartita progettuale, allo stato attuale invece latitante. Considerazioni che però competono solo in parte qui al nostro racconto.
Una domenica di ricordo è stata quella al Valle, ma forse più esatto sarebbe dire una domenica di riflessione anche per quanti l’hanno affrontata con un bagaglio di assunti, di consapevolezze. Dopo le proiezioni di alcuni filmati – spezzoni o prologhi tratti da L’Arte della Commedia, Na Santarella, Sik Sik l’artefice magico, Il Cilindro e La tempesta – la responsabilità dell’apertura è spettata ai curatori Bruno Roberti e Roberto De Gaetano, il quale ha efficacemente illustrato la sua definizione di commedia scettica eduardiana, ovvero la costruzione di una immagine del mondo che scopre il tragico attraverso il comico. A questi si sono succeduti gli interventi di Antonella Ottai, Anna Barsotti, Alessandro Canadè e Alessandro Cappabianca incentrati sul rapporto tra De Filippo e i media, i quali hanno passato in rassegna in modo più o meno appassionante i lavori compiuti per la radio negli anni Cinquanta, quelli per il cinema e le edizioni televisive delle opere nel ’62, nel ’64, nel ’77 e nell’ ’81.
Provvidenzialmente la chiusura della prima parte – cui è seguita una seconda con proiezioni di film e registrazioni, ulteriori interventi e una mostra nel foyer – è stata lasciata a Ferruccio Marotti. Peccato maggiore, data la ristrettezza incalzante dei tempi determinata da ritardi organizzativi, l’impossibilità dell’ascolto della Tempesta shakespeariana tradotta in napoletano seicentesco e registrata da Eduardo prima di morire, quando già una significativa menomazione della vista gli rendeva più ostica l’impresa. Tuttavia la proiezione delle lezioni di drammaturgia tenute alla “Sapienza” di Roma agli inizi degli anni Ottanta sono servite a scoprire le zone e i meccanismi meno conosciuti al grande pubblico, gli ingranaggi del mestiere che soggiacciono alla fruizione e ne sono presupposto. Nella relazione con gli studenti, dai video, si rende chiara la scelta di temi provenienti dalla formazione familiare e capocomicale, dall’abitudine e l’inclinazione teatrale, la precisa selezione di elementi utili all’economia della narrazione, il sistema del ribaltamento situazionale della comicità, la nozione di rappresentazione e interpretazione: «Il teatro è qualche cosa di magico che il pubblico non deve sapere. Questa è la ragione che ha affossato il cinematografo…Il teatro deve essere verità, ma verosimile…La verità nuda e cruda è noiosa»; «L’attore deve essere stanco. Quando è stanco può iniziare a recitare…L’entusiasmo lo frega, gli fa fare gesti inconsulti». Nelle letture a tavolino degli scritti affiora l’istinto ritmico delle battute ripetute e suggerite per toni e mordente ai ragazzi e resta impressa come una ferita didattica lapidaria la cacciata di un giovane che lamentava la gestione degli incontri: «Ci vuole pazienza per fare questo lavoro. Ci vuole una vita intera. Se non hai pazienza di ascoltare gli altri, non sai ascoltare nemmeno te stesso. Non puoi fare questo lavoro. Vattene!».
La suggestione di chiusura è lasciata all’ultima occasione di calcare il palcoscenico a Montalcino con i due monologhi al balcone di Questi fantasmi e alla definizione di tradizione come trampolino da esperire e conoscere a menadito, da abbracciare o rinnegare così da costruire la propria cifra, il proprio stile personale. Stessa suggestione vale per la demarcazione della nascita come punto di arrivo e della morte come punto di partenza per quanti restano. A coloro che vedono in Eduardo De Filippo uno degli emblemi di qualcosa di sorpassato, che hanno lasciato adito al dubbio che il suo teatro senza di lui perda valore consigliamo nella contemporaneità di andare oltre la superficie. La leggenda è epocale e in quanto tale forse deteriorabile, la storia è l’incommensurabilità di ciò che continua ad essere anche quanto non è più.
Marianna Masselli
Twitter @mari_masselli
Visto in marzo 2014 al Teatro Valle Occupato di Roma