L’archivio Andrés Neumann. presentato il volume curato da Maria Fedi
«Qui abbiamo a che fare con i giganti. E questo fa sempre paura». Con queste parole, preso in mano il microfono dopo il saluto curato e accorato di Renzo Guardenti del Centro Culturale Il Funaro di Pistoia, Andrea Porcheddu cominciava il proprio intervento alla presentazione di un bel libro dal titolo L’Archivio Andrés Neumann. Memorie dello spettacolo contemporaneo, edito da Titivillus per la cura di Maria Fedi con Giada Petrone. Dopo Firenze, Roma è stata la tappa di questa sessione di divulgazione: nella bella cornice del Teatro Studio Eleonora Duse di Via Vittoria ci si è trovati ad ascoltare le varie testimonianze intorno all’Archivio Andrés Neumann, alla presenza del diretto interessato. Sorridente e in là negli anni, seduto al margine destro del tavolo montato sul palco, quell’ometto originario della Bolivia sarebbe diventato, soprattutto a partire dagli anni Settanta, uno dei più influenti produttori e organizzatori teatrali su scala europea.
Arrivato grazie a una borsa di studio nel 1972 in Francia, collabora con Jack Lang al leggendario Festival Mondial de Théâtre di Nancy. Leggendario perché, grazie a un’intensa e allora pionieristica attività di scouting su scala globale, il direttore francese avrebbe gettato le basi per il concetto di circolazione delle arti performative nel nostro continente. Neumann avrebbe proseguito poi in Italia, prima a Firenze per dirigere la stagione sperimentale dal nome Rondò di Bacco, poi dal 1978 alla guida della sua casa di produzione e distribuzione Andrés Neumann International. Possiamo dire che nomi come Pina Bausch, Tadeusz Kantor, Peter Brook, Andrzej Wajda e Ingmar Bergman debbano a lui la possibilità di girare in Italia. E anche noi. Eccoli lì, i «giganti» di cui parla Porcheddu, personalità insostituibili che Neumann – poi anche accanto al compianto Renato Nicolini negli anni della sua Estate Romana, l’unica “originale” – si è assunto il compito di traghettare in giro per pubblici diversi.
Il libro scritto (ancor più che curato) dalla studiosa Maria Fedi è, secondo Porcheddu, «un bellissimo racconto ma anche una pratica di amore, un viaggio esistenziale molteplice». Il tentativo di “storicizzare” il contemporaneo nasce dalla donazione – a quanto pare piuttosto casuale, disinteressata – dello stesso Neumann di montagne di «scartoffie» al Funaro, una «storia di carta» che attraverso foto, documenti, contratti e persino scontrini di pranzi e cene, racconta decenni di rapporti personali con le compagnie; un tesoro di ben sessantamila esemplari per il quale, sorride il produttore boliviano, una «alternativa efficace sarebbe stato un bel cerino». Se Fedi ricorda l’emozione di aprire il primo faldone, la sensazione di trovarsi di fronte a «qualcosa che come storica del teatro non avevo mai visto», alla possibilità di raccogliere una «memoria riferita a un materiale che ha appena finito di compiersi, carente di quella solita distanza critica necessaria a fare il mestiere di storico», secondo Guardenti «il valore di un archivio arriva quando lo si ravviva, quando si pubblica e si diffonde»; per lui la digitalizzazione «è certo necessaria, ma non tanto per conservare quanto per diffondere», mentre i documenti di carta portano con sé un profumo e una vita che altrimenti andrebbe persa, un’energia trasversale che attraversa il supporto fisico e racconta particolari sensoriali.
Con il pensiero di Calvino – citato da Guardenti – secondo cui «la memoria esiste solo quando contiene l’impronta del presente e il progetto del futuro» sembra essere d’accordo anche Porcheddu, che invece tira in ballo Georges Didi-Hubermann e le sue immagini che «raccontano molto più di quello che mostrano». Dalla ricostruzione dei materiali e soprattutto dalla possibilità di intercettare, nei suoi interstizi, la mano di un’archivista che si fa anche narratrice, «si capisce tanto della politica italiana, del ruolo del PCI e delle istituzioni culturali. È un racconto – prosegue il critico – italiano e internazionale, una storia del “teatro che ci piace”, quello che ci ha formato».
Attraverso scatti emblematici come l’arrivo di Kantor e del suo Cricot 2 a Fiumicino nel 1979 o il carteggio militante per portare il Mahābhārata di Brook o Palermo Palermo del Tanztheater Wuppertal di Bausch in Italia o Oltralpe Vittorio Gassman e Dario Fo, si compie «profondo viaggio iniziatico in cui si procede per “famiglie di sentimento, per affinità”, contestualizzando il lavoro e la professione di Neumann e creando un vero e proprio atlante della memoria, dando delle rotte, offrendo delle tracce. E generando domande». Il Nancy di Lang o l’Avignon di Jean Vilar, tutti festival «nati per contestare e poi a forza istituzionalizzati», un modo per «far vivere il teatro attraverso la società e la società attraverso il teatro». Neumann attende il proprio turno per parlare, per poi esordire con: «Che ci facciamo qui? Che c’entriamo con tutto questo?».
Lui che non è mai stato un grande appassionato di archivi, con disarmante candore dichiara di non andare a teatro da più di dieci anni. E questo rischia di offrire al suo lavoro un pericoloso risvolto museologico, in parte scongiurato dalla passione con cui è stato condotto e presentato questo studio. E se, come sottolinea Porcheddu, «fare organizzazione può (deve, forse, ndr) diventare fare arte, avere una visione del ruolo politico e culturale dei contesti, scoprire il dialogo diretto con gli artisti e avere una visione del teatro», di fronte a questo lavoro si avverte il senso di una trasmissione in tempo reale. Di certo quella trasmissione la vediamo accadere, con tutte le sue fragilità, noi, che di quella generazione di giganti sentiamo tutt’al più il peso e un po’ di freddo, investiti dall’ombra che proiettano su un presente che a quel passato sembra non poter (o voler?) più somigliare.
Sergio Lo Gatto
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