La lettera, essenziale nudità impaziente di indossare un abito di parole, cucite l’una con l’altra da una confessione fatta a noi stessi prima e al nostro destinatario poi. Dietro l’appellativo di “caro” o “cara” possiamo scorrere traballanti e incerti segni di storie, emozioni, tempo e una data: il 1919, quando il giovane trentaseienne praghese Franz Kafka lasciò nero su bianco le tracce di un discorso mai proferito e ancora in attesa del suo interlocutore. «Tentativo incompleto» di un monologo dunque, la cui intimità fu abbandonata in cambio di una pubblicazione postuma nel 1952. Beffa, destino o l’atto mancato di preservare quell’oscura trasparenza che è la Lettera al padre.
Da dieci anni quelle parole di concreta durezza hanno trovato un proprio messaggero, Gabriele Linari, che insieme alla Compagnia LABit è in scena per un mese al Teatro Due di Roma con Lettera al padre e Tommy, quest’ultimo in programma dal 11 al 30 marzo, per «capire i due mestieri più difficili: quello di padre e quello di figlio». Il corpo magro e nudo dell’attore è oscurato a tratti dal gioco delle luci di Flavio Tambuirrini, che sembrano muoversi per e con esso, destreggiandosi tra una scala, due barili riempiti d’acqua, due tavole di legno appese al soffitto e un cavallo a dondolo. La scena povera di elementi sembra una “foresta di simboli” immersa in una parziale penombra e abitata da una voce chiara, ferma e sincera che pronuncia la spietata autoanalisi di un’adolescenza schiacciata da una mano troppo grande che soffoca e intrappola una troppo piccola.
Le musiche originali di Jontom amplificano la gestualità dell’attore, le grandi mani danzano rapidamente davanti al volto scavato e con gli occhi spalancati vivaci e profondi, illuminati dalla luce forte di un faro, che abbaglia ma non acceca. Le spalle dell’attore sono ricurve e contratte per incassare l’ennesimo giudizio negativo, la nuova colpa, l’ingiusto disprezzo, mai compreso ma rispettosamente accettato. La testa è china tanto da far scomparire l’espressione di quell’ odioso affetto, lo stesso che permette all’esile corporatura di rialzarsi ancora dopo la caduta. Nella speranza ingenua di un complimento da parte del destinatario irraggiungibile, l’attore prende prima un vestito e poi una camicia da una stampella, indossa quest’ultima non abbottonandola e lasciandola aperta sul busto, mostrando così le nervature di un corpo sempre in tensione, non solo fisica. Il respiro affannato solleva il petto e assottiglia la pancia, scopre il costato, corre giù per il braccio e si attorciglia nel pugno per poi risalire fino al collo e vibrare nelle corde vocali. L’ angoscia di sottomissione è allegoricamente rappresentata dalla sfortunata fine dell’inetto Gregor Samsa, accorta incursione letteraria e drammaturgica nel testo La metamorfosi. Il dorso dello scarafaggio poi colpito e ferito dalla sorella, viene reso con l’aiuto di due ombelli neri, un sottile e precario rifugio agitato e tremante in un angolo.
Quella voce, alla quale vorremmo arrecare conforto, consolarla e offrirle una protezione quasi materna balza dal palco e si muove tra noi sinuosamente corposa, ci colpisce risuonando e amplificandosi maggiormente nei nostri corpi. Non c’è risposta, seppur auspicata, a queste parole, restano lì, sospese, sospinte da quel respiro lungo e finale che si propaga nella sala, sfiorando le nostre intimità, dentro i nostri vuoti, nelle nostre ancore nude lettere a qualcuno.
Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri
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In scena fino al 9 marzo 2014 al Teatro Due, Roma
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Dall 11 al 30 marzo, al Teatro Due Gabriele, Linari porta in scena Tommy
Compagnia Teatrale LABit presenta
LETTERA AL PADRE
da F.Kafka
adattato diretto e interpretato da Gabriele Linari
foto di scena Ilaria Mattei | fonica e luci Flavio Tambuirrini | aiuto regia Alessandro Porcu
musiche originali Jontom
diretto e interpretato da Gabriele Linari