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Steve Jobs e Mike Daisey. Il baco nella mela

Recensione Il tormento e l’estasi di Steve Jobs di Giampiero Solari al Teatro Vascello

 

Il tormento e l'estasi di steve jobs
Foto Giorgio Mesghetz

C’è in ogni caso uno spostamento, fisico, emotivo, nell’andare a teatro. È mosso da una presa d’atto in cui si permea la domanda d’ascolto. Ciò che ci ha condotti qui. Alle spalle di una sparuta platea, in una sera di mezzo inverno la domanda giunge da un’amica e attrice di rango, portata di fronte a Il tormento e l’estasi di Steve Jobs, che ci si appresta a vedere, per verificare come gli americani raccontino la contemporaneità, cosa in cui a suo dire sono eccellenti, per avere innato nella propria cultura – quando non nell’essenza – un carattere di immediatezza di cui popoli più stanchi, annoiati nel crogiolo dei loro stilemi, paiono privi. Sul taccuino prima intonso è questo il primo appunto, ciò che per relazione e dono d’altri diventa il nucleo d’interesse, l’atto di presenza attraverso cui ristabilire i parametri della propria coscienza del mondo, materia e fine ultimo della visione teatrale.

Americani. Contemporanei. Lo è di certo Mike Daisey, attore e autore ma soprattutto appassionato di sistemi operativi e tutto ciò che ha a che vedere con l’evoluzione dell’informatica mondiale. Il testo omonimo, portato in scena in Italia da Giampiero Solari, è un racconto che attraversa la storia, ma meglio dire l’epopea, della casa di produzione Apple, dagli anni della sua fondazione a Cupertino, California, nel 1976, fino ai più recenti sviluppi, narrando i suoi trentacinque anni di vita attraverso la figura di riferimento che l’ha resa potenza mondiale delle comunicazioni o – a suo dire – cardine di un cambiamento epocale: Steve Jobs. Eppure, è chiaro fin dalle prime battute, non c’è esaltazione che non corrisponda a una venatura critica, si avverte nelle pieghe della scrittura che qualcosa non è come si sta ricostruendo. Già perché nei racconti epici c’è una scelta, un montaggio sapiente che lega insieme fatti e cronologia, eludendo ciò che al racconto non serve o, semplicemente, non conviene. Di questo invece si occupa il testo di Daisey, che risale al 2010 e cioè a prima della morte di Jobs: il risvolto nascosto e segreto di Foxconn, la delocalizzazione produttiva nella Cina alienata e senza diritti dei suicidi e delle punizioni esemplari, insomma il baco della mela.

Il tormento e l'estasi di Steve Jobs
Foto Giorgio Mesghetz

In una scena ridotta a una quintatura prospettica quasi intima, il volto illuminato da un tondo luce di Fulvio Falzarano, caldissima voce e camicia hawaiana, introduce la prima persona di Daisey, la sua quasi morbosa necessità di penetrare i meccanismi dell’oggetto multimediale e la sorprendente penetrazione, pur casuale, nei meccanismi della società che li ha resi una inarrestabile, anch’essa morbosa, “way of life”. La sua storia inizia smontando ogni pezzo di un computer, così decriptando i segni di una struttura che il nostro uso dà per scontata; con lui dialogano in proiezione video alcune immagini narrative di luoghi simbolo come la Silicon Valley, ma anche rimandi meno espliciti come i video del film Orwell 1984 di Michael Radford e le vecchie pubblicità Apple, in cui già piuttosto chiaro è l’intento del suo animatore Jobs: cambiare la relazione fra individuo e comunità, far penetrare una macchina di calcolo fino al punto di allentare i cardini nel tessuto umano e destabilizzarlo, ricreando la sua trama.

Un ottimo teatro documentario quello di Solari, che ci consegna una materia prima ignota e pone grazie a essa una domanda urgente che travalica l’averne fatto spettacolo. Il suo gioco di smontare la macchina, quando passa sul piano figurativo, introduce allora la necessità del testo di Daisey: comporre un percorso contrario alla fabbricazione, per vedere cosa essa nasconda. In fondo a tutto si accenderanno così le luci, la voce di Daisey/Falzarano ci dirà direttamente che ora cercheremo di ricordare la lampante denuncia, tuttavia nota anche prima e invece per nostro comodo aggirata. Sarà mai in equilibrio la relazione tra fascino e percezione del reale? Certi personaggi come Steve Jobs, osannati da generazioni e divenuti guru della contemporaneità, non avranno mai pace neanche dopo una morte che anzi forse alimenta il mito, saranno sempre a metà fra eroi e figli di puttana. Eppure, in ogni caso una domanda resta inevasa: quel che sappiamo o che arriviamo a conoscere basta a comporre la nostra coscienza? Il baco, in cammino nella polpa della sua mela, ha trovato la strada della sua “way of life”.

Simone Nebbia
Twitter @simone_nebbia

In scena fino al 9 febbraio 2014 al Teatro Vascello
Roma

IL TORMENTO E L’ESTASI DI STEVE JOBS
tratto da “The Agony and Ecstasy of Steve Jobs”
di Mike Daisey
traduzione e adattamento di Enrico Luttmann
con Fulvio Falzarano
regia Giampiero Solari
video di Cristina Redini
luci di Paolo Giovanazzi
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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