Recensione de La radio e il filo spinato di Roberto Abbiati
Lo spettacolo La radio e il filo spinato di Roberto Abbiati si ispira alla vita di padre Kolbe, sacerdote cattolico polacco trasferito ad Auschwitz e sacrificatosi per salvare la vita di un altro deportato, ma non ne racconta la biografia. Prepara sulla scena la sua morte volontaria, in modo da farne il gesto esemplare che mostra allo spettatore di come il bene trionfi sempre sul male, anche dove questi sembra dominare incontrastato.
Il percorso comunicativo che conduce a questa conclusione è semplice e potente. Sulla scena, abitata da Abbiati insieme a Luca Salata, pende un lampadario cesellato di diamanti, che rappresenta la «magnificenza del male» e trionfa su un buio campo di concentramento. Essi danno poi vita alle testimonianze di alcuni deportati che ricordano atti di varia umanità di cui padre Kolbe fu protagonista (il dono della sua magra razione di zuppa a un giovane, l’atto pietoso di raccogliere e cremare i cadaveri di alcuni ex-compagni), utilizzando i loro corpi, i suoni della natura registrati, pezzi o rottami di varie biciclette, alcune marionette sia costruite che dipinte a mano e un sapiente gioco con sei lampadine.
Al contrario del lampadario, che si accende un’unica volta sulla sinistra marionetta dell’ufficiale medico delle SS per mostrare alle sue spalle due camerieri che tremano nell’annunciargli l’ora del tè, queste ultime splendono fioche, infatti, proprio nei momenti in cui il sacerdote compie i suoi atti di bontà, quasi a immortalarli e a mettere in risalto la speranza che generano nei deportati, reduci di una sconsolata «società di morti». Infine, gli attori inscenano l’uccisione di Kolbe con un’iniezione di acido fenico, facendo all’improvviso crollare a terra il lampadario e segnalando, così, la vittoria del padre che, l’istante prima di morire, pare abbia pronunciato queste parole: «Lei non ha capito nulla della vita. L’odio non serve a niente… Solo l’amore crea». In queste parole sembra celarsi il motto di un altro celebre martire dell’umanità, quel Socrate che, stando all’Apologia platonica, avrebbe sostenuto che nessun malvagio sa in alcun modo intaccare l’uomo buono: «Anito e Meleto possono uccidermi, ma non possono farmi danno».
Ma da dove viene questo potente messaggio del sacerdote? E come è stato possibile compiere il suo gesto estremo, che esprime la verità delle parole pronunciate in fin di vita? Sulla base delle poche ma essenziali battute che i due attori pronunciano, sembrano due le risposte possibili. Da un lato, la fiducia di Kolbe nella provvidenza divina, che lo induce a pensare la propria esistenza diretta allo scopo di salvare i compagni deportati, al pari di quella del filo d’erba che è preparata apposta per nutrire il gregge. Dall’altro, il suo amore per tutto ciò che «va oltre», che non si arrende alla superficie delle cose e che lui paragona alla forza pervasiva delle onde radio, propagate nello spazio superando ogni ostacolo materiale, non importa quanto solido e grezzo. Se la prima risposta persuade solo il cristiano, ma non chi trae proprio dalla ricostruzione di Auschwitz il fondato pensiero che Dio esiste senza far nulla, la seconda convince e scuote lo spettatore, inducendolo a farsi anch’egli testimonianza vivente del credo di Kolbe, nei limiti delle sue piccole forze.
E forse, unendo insieme gli sforzi di tutti, sarà possibile riprendere uno spunto offerto da un’altra battuta dello spettacolo, impiegata da Abbiati per caratterizzare il personaggio del sacerdote ma che può essere ulteriormente sviluppata per potenziarne il messaggio. Padre Kolbe non è solo un amante della radio e del suo potere propagatore. È pure l’ideatore di alcune invenzioni impossibili, tra cui il cosiddetto “etereoplano”, un marchingegno alato che si libra sulla spinta delle azioni buone compiute per gli altri. Ora, se noi tutti sposeremo il suo credo e penseremo, a volte andando contro ogni logica, che l’amore può superare qualsiasi ostacolo, riusciremo a dare realtà al pensiero per ora solo poetico del sacerdote, fornendoci uno strumento a energia perpetua che lascerà definitivamente alle spalle una terra in cui sembra ancora dominare il male con il suo sterile, banale e stupido odio per la vita.
Enrico Piergacomi
Twitter @democriteo
Visto al Teatro Portland di Trento in gennaio 2014
LA RADIO E IL FILO SPINATO
di e con Roberto Abbiati e Luca Salata
con poetica di Mario Vighi
assistente alla regia Lucia Baldini