«Somiglia sempre di più a un racconto noir, in cui piano piano si risale a chi è l’assassino, poi il mandante…». Questa una delle sagaci uscite di Monique Veaute, presidente della Fondazione Romaeuropa, che alla sede dell’Opificio Telecom ha convocato una partecipatissima conferenza stampa per fare un punto sulla decennale gestione del Teatro Palladium: dopo l’annuncio del 18 dicembre scorso, questa si chiuderà ufficialmente il 9 febbraio. Per poi restituire il teatro entro il giorno 12 dello stesso mese. Restituirlo a chi? Questa la domanda alla base del polverone mediatico (e non solo) che da qualche settimana infiamma la Capitale. Più che la domanda, la risposta. Il teatro del quartiere Garbatella tornerà infatti nelle mani del legittimo proprietario, l’Università di Roma Tre. Nella nebbia ancora fitta che nasconde le sorti di questa scelta trapassa soltanto qualche scarna dichiarazione da parte del vice presidente alla Regione Lazio Massimiliano Smeriglio, intenzionato a fare del Palladium un luogo per la formazione. Un termine, questo, che – oltre a identificare, insieme alla Scuola, la delega di competenza del politico romano – forse viene tirato in ballo troppo spesso e reso liquido da una troppo diffusa ingenuità rispetto quanto meno al settore di cui ci stiamo occupando, cioè il teatro contemporaneo, più in generale l’arte.
Per seguire la boutade di Veaute, potremmo dire che l’arma del delitto rischia di essere proprio un concetto sacro e però già tramutato in azione: la Fondazione Romaeuropa lo fa da ben ventotto anni, dieci dei quali usando come strumento anche il Teatro Palladium. E le amministrazioni sembrano non accorgersene.
Se la conferenza stampa del 7 febbraio è diventata un’occasione per raccogliere un’assemblea informale in cui tutti sembrano d’accordo su tutto, specialmente sull’impotenza sofferta nei confronti delle istituzioni, è di certo perché le occasioni di questo tipo si stanno moltiplicando. Occasioni in cui il proverbiale piangersi addosso sembra davvero trasformarsi in un fremito d’azione. Il fatto di riconoscersi, tra la folla, con sempre le stesse facce – magari solo un po’ più magre – dovrebbe servire a dare la spinta verso un cambiamento. Eppure c’è poco da fare ideologia, le vere difficoltà sono innanzitutto pratiche, un portafoglio già sottile che si sta svuotando sempre di più. Parliamo di un sostegno comunale di 400.000 euro rimasto intatto fino al 2012, tagliato del 50% esatto nel 2013 e portato a quota 0 per l’anno appena cominciato; stessa cifra a cui è stato ridotto il finanziamento della Provincia, dai 100.000 euro del 2013; dal canto loro, né MIBACT (FUS) né Regione hanno erogato un centesimo.
Il finanziamento pubblico di Romaeuropa, in quanto ente Fondazione, proviene per ben il 45% da casse private. Questo per rispondere a quanti, in buona o meno buona fede, si interroghino sulla possibilità di mescolare il fondo pubblico con quello privato. Pubblico e privato. Eccolo, il grande dilemma, lo stesso che si vive in molti altri settori della vita sociale e produttiva, lo stesso che fa entrare in gioco interessi e dignità del lavoro, lo stesso che un pensiero culturale dovrebbe per definizione essere in grado quanto meno di interpretare. Ma un dilemma del genere lo si scioglie soltanto a fronte di un progetto preciso, che nel caso delle amministrazioni locali riguardo alla cultura sembra di fatto mancare. Ricordiamo bene la difficoltà del Teatro di Roma nell’insediamento di un nuovo Consiglio di amministrazione (come in tutti gli Stabili pubblici al vaglio dell’approvazione comunale); ricordiamo bene la difficoltà nel tracciare l’iter di assegnazione e di gestione di quel monstrum che è la Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea: sei spazi nel cui lavoro, a volte encomiabile a fronte degli esigui finanziamenti, ci troviamo a sperare in mancanza di alternative.
L’excursus offerto dal direttore di Romaeuropa Fabrizio Grifasi si chiude, tra mille ringraziamenti agli artisti e alle strutture partner di questi dieci anni, con un corpo di dati che risulta, di fatto, stupefacente. 33 spettacoli, 163 repliche, 234 giornate di attività in un anno, 34.283 presenze nel 2013, di cui 9.311 negli ultimi due spettacoli (Peter Stein ed Emma Dante) in sole 25 repliche. Questa la risposta a una domanda assurda che immaginiamo (ma nemmeno tanto) Grifasi abbia ricevuto dall’assessore alla Cultura di Roma Capitale Flavia Barca quando – dopo la ratifica di tagli così severi – veniva tolta alla Fondazione la gestione del Palladium: «Ma voi alla città che cosa date?». Minuto di silenzio, prego.
Questi stessi dati sono solo uno stendardo efficace, dietro al quale campeggia un lavoro culturale completo, uno sforzo occupazionale, una volontà di sprovincializzare la città in modo esemplare, in un paese che – con esempi più o meno virtuosi – divide l’arte e la cultura in quartieri. Nella sua completezza e complessità, la gestione di Romaeuropa – che ha sempre tentato di connettere il famoso festival quasi trentennale con le attività dello spazio di Garbatella – è una gestione fieramente perfettibile. Come deve essere qualsiasi progetto di ricerca.
Di risposte alla domanda principale, che qualcuno in sala prova a rigirare su Veaute e Grifasi, «perché sta accadendo questo?» non ne arrivano. Almeno fino a quando la parola passa in mano all’uditorio. Saltando di microfono in microfono, sono molti i messaggi di sostegno da parte di artisti, giornalisti, critici, operatori e pubblico (categoria che poi raccoglie tutte le altre). Qualcuno – appuntamento su Twitter per scoprire chi – avanza persino la proposta di chiedere le dimissioni dell’assessore Barca e di occupare il Palladium. Ma in fondo, se la prima ipotesi è ragionevole, la seconda forse rischierebbe di spostare il problema, anche se è la presidente stessa a sorridere: «In effetti abbiamo capito che l’occupazione funziona». E a proposito di occupazione, saltando all’altro significato di questo termine, ecco l’ultimo nodo.
Togliere uno spazio a Romaeuropa per darlo in mano all’Università non è sbagliato in senso assoluto. Ma immaginare di sostituire a un progetto culturale organico l’ennesima “scuola di formazione” per le arti dello spettacolo è un passo davvero deludente. Anche qui, non in senso assoluto, ma perché denuncia una disarmante disattenzione alla realtà delle cose: formare nuovi disoccupati? Forse piuttosto bisognerebbe cominciare a capire che il teatro e l’arte, se concepiti e offerti secondo un progetto in grado di mettere radici nel territorio senza però perdere neppure un soffio del vento che spira lassù, sono già di per sé formazione, sono un veicolo culturale che smuove gli animi da dentro, creando un’evoluzione inaspettata. E per sua natura incontrollata. Forse è proprio questo a far paura alle istituzioni. Lo statuto di una Fondazione è un mezzo per assicurarne – pur nella lotta per la partecipazione pubblica – una sostanziale indipendenza. E questo la politica non riesce a sopportarlo. Insomma, alla fine chi era l’assassino?
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
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