Recensione di Educazione siberiana di Giuseppe Miale Di Mauro
Tratto dal fortunato romanzo di formazione di Nicolai Lilin, giovane scrittore russo naturalizzato italiano, Educazione Siberiana, in scena al Piccolo Eliseo, affronta con uno sguardo per nulla compassionevole o moralista le vicende di una piccola comunità dichiaratasi indipendente dall’Unione Sovietica, ma non riconosciuta da nessuno. Ecco i “criminali onesti”, una versione disincantata del Robin Hood per cui è consentito rubare ai ricchi. Nell’asprezza siberiana, come avrebbero vissuto dei ragazzi? Quella raccontata da Lilin, che per questa messinscena diretta da Giuseppe Miale di Mauro ha lungamente collaborato al lavoro, è la tragedia vissuta da una famiglia capitanata da uno dei saggi anziani – un austero e autorevole Luigi Diberti – con una figlia e quattro nipoti, educati dalle storie tatuate sul corpo, dalle picche, da un codice etico antico fatto di religione, armi, rispetto per tutti tranne che per chi impone un potere dispotico.
Ciascuno dei ragazzi cerca la libertà a proprio modo; tutti sognano l’America, perfino il minorato mentale Nixon, cappello felpato e pelouche sotto braccio; egli parla inglese, parla di musica, di democrazia. Come nella Grecia antica anche secondo la cultura di questa comunità egli, «il voluto da Dio», detiene una purezza e un sapere oltre quello comune. L’ american dream per qualcun altro invece è fatto di jeans, di Mc Donald, di televisione (la cui presenza di nascosto è rivelata da un bagliore in penombra osservato con attonita religiosità) e soprattutto di ricchezza, quella facilmente raggiunta, vendendo la propria dignità, la libertà o il diritto dell’altrui vita. È fin troppo facile vendersi al nemico, difficile è salvare i propri valori.
Molto funzionale a tutta l’idea appare l’utilizzo dell’illuminazione (a cura di Luigi Biondi), emotivamente molto significativa e caratterizzata da tagli netti di luci che squarciano la scena quasi a formare croci gigantesche sui muri oppure al contrario sporcando di rosso pareti e personaggi. Discorso simile vale anche per la scena (di Carmine Guarino) il cui spazio claustrofobico è suddiviso a metà da una parete apribile, quasi un sipario tagliafuoco che separa due spazi assolutamente diversi. Se fossimo al cinema avremmo parlato quasi di un montaggio interno, tale per cui, in un’unica inquadratura avremmo visto seguire un buon andamento tra i vari passaggi dal proscenio – la casa al cui interno vivono le relazioni, gli affetti, ma anche il luogo in cui si può esser scoperti, più vulnerabili – per poi spostare l’attenzione alla parte posteriore rialzata, che di volta in volta è luogo di tortura, di morte. Una colonna sonora, dalla presenza quasi costante, attraverserà ad alto volume sonorità maestose e ritmi hard rock , delineando atmosfere inequivocabili. Si aggiunga anche il lavoro fatto sul linguaggio: in generale l’adattamento non risente della sua matrice romanzesca, anche se a volte si rischia di sentire il peso di una modalità eccessivamente narrativa. La lingua si sporca di realtà, è diretta, dura, i dialoghi mantengono un ritmo serrato. Tuttavia le inserzioni di alcune frasi in russo, lingua madre, ma anche mezzo di comunicazione tra i militari e le donne – le uniche cui era permesso rivolgere la parola ai “criminali disonesti” –, anziché lasciar entrare ancora più in profondità nel mondo degli Urka siberiani, anche attraverso la durezza del linguaggio, rischiano, perché accennate, di rimanere decorazione che al più regala un briciolo d’atmosfera.
L’interpretazione univoca non esplora fino in fondo le sfaccettature dei personaggi: sono uomini duri, fanno azioni da duri, hanno facce da duri. Un po’ stereotipata anche la madre, unico personaggio femminile che, si dirà, giustamente disperata, stanca, affannata, piena di preoccupazione. Ma non c’è respiro d’altra natura in quest’esagerazione di toni. Perfino durante prologo ed epilogo il tono composto (motivato probabilmente dalla sua funzione di oggettiva esposizione dei fatti) risulta manchevole di verità. No, non avremmo chiesto fosse altro dalla crudezza della vita che i personaggi portano sulle spalle, e tuttavia perché quest’opera esprima appieno le grandi potenzialità – presenti non solo sulla pagina, ma anche nella sua versione scenica – si potrebbe guardare un po’ oltre lo stilema dello spietato, che con nervoso tic passa la mano fra i capelli.
In generale tutta la messinscena è segnata costantemente da tensione, talmente tirata all’eccesso che, come un dolore troppo a lungo protratto, finisce per auto-anestetizzarsi. Alcune delle scene più violente avrebbero giovato parecchio della scelta di raccontare solo una parte dell’immagine: sarebbero state le gambe, i piedi, a mostrare di rimando il colpo sferzato o quello subito; eppure quel terribile che nella sua compiutezza diviene catartico, rimane imprigionato in un’espressività non efficace a tal punto da oltrepassare il confine che separa l’immagine violenta dalla violenza stessa.
Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti
in scena al Teatro Piccolo Eliseo di Roma fino al 16 febbraio 2014
EDUCAZIONE SIBERIANA
di Nicola Lilin e Giuseppe Miale di Mauro
da un’idea di Francesco Di Leva e Adriano Pantaleo
regia Giuseppe Miale di Mauro
con Elsa Bossi, Ivan Castiglione, Luigi Diberti, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo, Andrea Vellotti
scene Carmine Guarino
luci Luigi Biondi
musiche Francesco Forni
costumi Giovanna Napolitano
cura del movimento Roberto Aldorasi
produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con NestT (Napoli est Teatro)