Provenienti dalle arti visive e dalla video art, Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, in arte Industria Indipendente, si sono spostate verso il teatro confidando in esso come «luogo in cui tutto è possibile», considerandolo «sintesi di tutte le arti», così hanno spiegato durante l’incontro pubblico che ha seguito la seconda replica di È tutta colpa delle madri al Teatro Valle Occupato. Nell’intento delle autrici le componenti performative, visive e sonore acquisiscono pari diritti sul palco, travalicando generi e linguaggi in quella che oramai potremmo definire come una consueta pratica dell’arte occidentale contemporanea. Tali differenti modalità di intendere l’evento scenico, nonostante la giovane età anagrafica, le due ideatrici le hanno esperite in anni di lavoro sulla scena indipendente a cui hanno fatto seguito anche alcuni riconoscimenti (col precedente Crepacuore si sono aggiudicate premi a Martelive, Festival Teatri Riflessi e a La Corte della Formica) e un pubblico numerosissimo che in queste due repliche nello spazio romano è stato perfino rimandato a casa per l’inaspettato sold out.
Presentato in prima nazionale e patrocinato anche da Amnesty International, in coproduzione col Valle che ne ha ospitato le prove sostenendolo secondo le modalità che regolano la stagione Altresistenze, È tutta colpa delle madri ci ha accolto ponendo ai piedi del palco un feretro trasparente al cui interno risaltava il rosso vestito di una donna: labbra serrate, occhi chiusi, morbidi capelli adagiati al cuscino. La mente vaga a ricordi assopiti di favole, di belle addormentate da risvegliare, mentre sul fondo iniziano ad apparire nere sagome; giovani donne e una più in là con l’età avanzeranno con mani tese e sporche di un colpevole rosso, macchia da levar via e non tepore da ammirare. Di quale colpa si siano macchiate queste donne poco si sa, così come poco si capirà dei loro personaggi e ruoli, figlie di una madre morta, perduta, o – semplicemente e per questo più crudelmente – andata via, piene di ricordi dall’esasperata e a tratti incontrollata emotività.
Il percorso, cominciato più di un anno fa e delineato in diversi laboratori, secondo ricerche parallele sia su fonti che direttamente in scena (per mezzo della collaborazione delle attrici), affermano le due autrici e registe, si focalizza sull’idea di abbandono. Tuttavia, nell’esposizione di quadri dallo sviluppo poco chiaro, finiremo per dimenticarci presto della presenza evocativa di quel feretro. Nel terzo atto le tre attrici, messe da parte le storie delle figlie, compresse in giacche calate dall’alto e con voce amplificata in distorsione, si presteranno a esporre pensieri di ipotetici padri, mariti abbandonati e rapiti nel confessare deliri d’amore o di morte per quelle che una volta furono compagne di vita. Ma i riferimenti alla violenza sulle donne, al riscatto di queste e a gruppi politici impegnati nella lotta per l’emancipazione (come le Pussy Riot) rimangono sullo sfondo e vengono esplicitati soltanto nell’epilogo. Qui, la donna chiusa nella teca, di rosso vestita, è ora in piedi, costretta da braccia che la bloccano, a dire di sé e del proprio allontanamento: per il bene del genere femminile decide di sacrificare sé stessa e la propria maternità. Di certo il messaggio non è semplice da veicolare e, quando non supportato da una solida orchestrazione degli elementi, rischia di gettare in confusione lo sguardo, offuscato nel senso e non del tutto convinto nell’intelletto. Probabilmente servirebbe affondare di più la mano sui temi e sulle modalità esperite, portare alle estreme conseguenze quanto accennato, in modo da farsi portatrici di quelle istanze sociali e narrative mediante una poetica originale e compiuta. Cosa che in parte accade nel secondo atto, esempio di quell’ibridazione dei linguaggi tanto agognata. Qui Industria Indipendente sceglie di parlare non attraverso il racconto, non tramite le voci, ma mediante l’accostamento di musica suonata dal vivo da un pianoforte, e di parole, mute nell’intenzione e per questo proiettate.
Al di là dell’interpretazione a tratti acerba delle attrici, dei segni scenici dall’impatto visivo deciso ma dalla durevolezza effimera, la drammaturgia ancora necessita di chiarezza per poter denunciare a piena voce ciò che vorrebbe, solo in questo caso la parola diventerebbe segno, e il corpo nella sua continua e ininterrotta caduta, nella fatica di dover (e doversi) rialzare, parlerebbe di sé stesso ma anche d’altro. Racconterebbe della fatica di dover rimanere in piedi dopo una perdita, del farsi muto contenitore di una memoria faticosa che continuamente cerca di stratificarsi, di ripetere la propria azione nel tentativo di accettare ciò che le è accaduto. Allora l’invito è fare come quei corpi, conservare memoria della caduta e, stratificandola, farne tesoro.
Viviana Raciti
È TUTTA COLPA DELLE MADRI
Visto al Teatro Valle Occupato in gennaio 2014
di Erika Z.Galli e Martina Ruggeri
con Anna Basti, Sara Pantaleo, Aurora Peres, Regina Orioli
una produzione Industria Indipendente e Teatro Valle Occupato
Produzione esecutiva Viviana Broglio
Media partner FaceMagazine
Social media partner Fattiditeatro
Ufficio stampa Chiara Vigliotti
Opere Davide Dormino | Alessandro Di Cola
Costumi Claudio Di Gennaro
Luci Davide Manca
Direttore di scena Lucio Duca
Sonorizzazione Abacom System
Video Maker Paola Rotasso
con il patrocinio di Amnesty International