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Shakespeare nomade di Giancarlo Sepe

Foto Ufficio Stampa
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In Molto rumore per nulla (Much ado about nothing) è la parola a fare da padrona: declamata, sussurrata, appassionata, arrabbiata, ironica, anche bugiarda. Le sue potenzialità performative riescono a muovere guerra o amore, instillare lo sdegno o il dubbio, sono capaci di mutar forma e segno alle cose straniandole per poi non riconoscerle.

Scritta da William Shakespeare e rappresentata intorno alla fine del Cinquecento, questa commedia – che non a caso trae spunto dal V canto dell’Orlando Furioso e dalla storia di un novelliere italiano di nome Matteo Bandello – è in scena fino al 26 gennaio al Teatro Eliseo nel nuovo adattamento di Giancarlo Sepe, con un cast d’eccezione che vede volti noti come primi attori, Francesca Inaudi e Giovanni Scifoni e la partecipazione di Leandro Amato, con Pino Tufillaro, Daniele Monterosi, Lucia Bianchi, Mauro Bernardi, Daniele Pilli, Valentina Gristina, Claudia Tosoni, Camillo Ventola, Fabio Angeloni.
Messina è la cornice che racchiude in sé le due trame contrapposte e attentamente equilibrate dal genio inglese: nell’una, che lega il giovane Claudio alla bella Hero figlia del governatore della città Leonato, l’amore è macchiato e ostacolato dall’inganno teso da Don John; nell’altra l’amore che unisce Benedetto e Beatrice giace nascosto da un sentimento bellicoso, l’«allegra guerra», che grazie al dubbio alimentato da Don Pedro cederà poi il posto alla passione. Il vano parlare, da un lato infama un sentimento puro e giovane e dall’altro ne alimenta uno già esistente ma per orgoglio celato.
L’adattamento di Sepe trasporta la vicenda in un campo nomadi, gli stessi signori del testo originale indossano panni tzigani e colorati, fatti di lustrini, lunghe giacche e gonne grandi e vistose. La scena è senza quinte né fondali, letteralmente una strada, un non luogo di passaggio dove tutto l’organico degli attori ascolta e partecipa al racconto. La parola appartiene a idiomi diversi, amalgamati tra loro in un mélange linguistico ibridato da accenti e inflessioni miste. Canzoni e suoni ritmati dal sapore folk (in cui riconosciamo un flemmatico scacciapensieri), completano questo affresco popolare di colore e odori, come quello del piatto cucinato in scena dalla bella Beatrice.

Foto Ufficio Stampa
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In un’orchestrazione scenica puntuale e ben curata, ciascun attore e attrice delinea con misura il proprio ruolo, rispettando la caratterizzazione a tutto tondo dei personaggi shakespeariani. Notevole la bravura dei due protagonisti: sdegnosa, ironica, pungente e sarcastica la Inaudi nei panni della bisbetica Beatrice; misogino, impacciato, goffo e orgoglioso il Benedetto interpretato da Scifoni, che fa ridere ed emozionare. E nel guardarlo con attenzione sembrerebbe ricordare un certo Kenneth Branagh alle prese con lo stesso personaggio in un lontano film del 1993…
La rappresentazione delle moralities molto in voga nel teatro elisabettiano, acquista ora nuova vitalità drammaturgica in questa riuscita regia di Giancarlo Sepe. La storia di una famiglia aristocratica narrata da una famiglia di nomadi, due comunità che si raccontano: giovani e anziani, due punti di vista, due approcci differenti.

Atteso il successo di questo lavoro creato da un regista che non ha bisogno certo di formali presentazioni e, qualora venisse definito come mero teatro commerciale, ciò sarebbe un errore, poiché trattasi invece di teatro popolare nell’accezione più colta e meritevole di lode. Lo stesso che riscuoteva consensi nella Londra dell’epoca e che oggi diventa la conferma di una tradizione in grado di reinventarsi.

Lucia Medri

Fino al 26 gennaio 2014 al Teatro Eliseo
Roma

MOLTO RUMORE PER NULLA
di William Shakespeare
traduzione adattamento e regia di Giancarlo Sepe
con: Francesca Inaudi, Giovanni Scifoni, Pino Tufillaro, Daniele Monterosi, Lucia Bianchi, Mauro Bernardi, Daniele Pilli, Valentina Gristina, Claudia Tosoni, Camillo Ventola, Fabio Angeloni e la partecipazione di Leandro Amato.
produzione Francesco Bellomo

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

3 COMMENTS

  1. Visto lo spettacolo e sono rimasto molto deluso. Quell oche mi è mancato è proprio Sepe che in passato ha regalato spettacoli visionari e di grande sensibilità ed eleganza ma che qui sembra aver lavorato con il braccio sinistro. L’idea del campo nomadi non nuova (Pugliese ci ha ambientato poco tempo fa un orrendo “La bisbetica domata) non è mai portata fino in fondo. Questi poco credibili zingari non suonano ma suonicchiano timidamente qualche percussione, non cucinano ma firiggono per qualche minuto, non cantano, non ballano. Non ho poi capito la presenza degli attori intorno allo spazio scenico che assistono come se tutto fosse una recita ma che poi a volte escono in modo canonico dietro le quinte (qui assenti). Non ho capito perchè rendere macchiette due personaggi come Borraccio e Don Juan e gli altri no. Non ho capito la scelta dei dialetti che ogni tanto si affacciano e a volte no. LA scena del ballo in maschera è una stitica festicciola e le maschere dei veli neri che intristiscono il tutto. Giovanni Scifoni, attore che reputo molto bravo (immagino che di certo abbia portato un valore aggiunto dopo il povero Liotti) risulta come personaggio antipatico fin dalle prime battute. Glli attori sono tutti bravi e salvano uno spettacolo privo di idee e di guizzi. L’unica nota stonata per me è Tufillaro che ha un modo di recitare ai limiti dello stonato e pomposo, mai credibile. Scrivere “un’orchestrazione scenica puntuale e ben curata” significa, a mio avviso, significa essere molto di bocca buona teatralmente parlando.

  2. Grazie a entrambi per aver letto e commentato l’articolo e mi scuso per aver risposto in ritardo.
    Trovo interessante che abbiate espresso il vostro parere sullo spettacolo di Sepe; un punto di vista divergente e diverso dal mio che, tengo a sottolineare, non vuole presentarsi come un giudizio reale o dato per assunto, ma piuttosto come uno sguardo.
    Non condivido ma rispetto le critiche fatte da Andrea e l’attributo “inverecondo” scelto da Mario, ritengo come ho già esplicitato nel testo, che il lavoro fosse accuratamente orchestrato ed equilibrato, evitando di cadere nello stereotipo nomade e rispettando di conseguenza il contesto shakespeariano al quale fa riferimento.
    Per quanto riguarda le incomprensioni, i dubbi o le perplessità penso siano quesiti da esporre al regista; il mio modesto compito è quello di analizzare uno spettacolo così com’è e non come dovrebbe essere.

    Spero di essere stata chiara
    Buona giornata
    L.

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