In un saggio in Prove di drammaturgia n.2/2009 (Titivillus Edizioni), Gerardo Guccini osservava come Stefano Massini, drammaturgo fiorentino che ha all’attivo oltre dieci anni di testi, adattamenti e regie e che è attualmente uno degli autori italiani più apprezzati all’estero, esplori «le dinamiche della funzione autore trasferendole all’interno dell’argomento». Era il caso de La fine di Shavuoth, in cui Kafka, addormentandosi a teatro, immaginava una conversazione con un attore, o di Memorie del boia (2004) in cui Balzac dialogava con il boia di Parigi in pensione: «situazioni narrative che si avvicinano per più versi alla nozione freudiana di transfert; […] ambienti minuziosamente descritti, che non sono né contesti realistici né ipotesi scenografiche, ma margini esterni di realtà che rendono raccontabile la vita dei personaggi».
Le evoluzioni più recenti della scrittura di Massini sembrano proprio andare alla ricerca di quei «margini esterni di realtà» che delimitano di fatto il racconto. Ed ecco che davvero si delinea una piccola ossessione, di quelle invincibili che colgono le creatività nel mezzo del loro verificarsi: per Massini sembra non esistere storia senza ciò che c’è dietro una storia: i fatti vengono estratti uno a uno, in una certosina operazione autoptica. In testi come Donna non rieducabile (2007), “memorandum” su Anna Politkovskaja, si mescolano atmosfere di guerra al più folgorante monologo interiore, cronologie freddamente giornalistiche a memorie della più tenera età, approdando a passi come: «Mi sveglio la mattina dopo con una strana sensazione: ho dormito senza svegliarmi, senza esplosioni. Mi alzo, vado in bagno, fisso il rubinetto con timore, lo giro d’un tratto, e incredibilmente uno scroscio d’acqua per giunta: calda! La lascio scorrere, guardandola, e mi viene da ridere, ma non poco: molto, moltissimo, non so neanche se rido o piango, so che resto lì a guardare l’acqua, a sentire l’acqua, a contemplarla, come una cretina».
Quella di Massini è una poetica dei dettagli, la ricerca forsennata di frammenti come di corpi esplosi, di memorie chiuse a chiave in attimi che sono già passati, tentando di distillare da una pioggia incontrollata di momenti l’essenza elementare che compone il fatto narrato. Nel più recente L’Italia s’è desta (2010) torna il gusto per il dettaglio, per un occhio che va a scavare nell’intimo delle cose e si muove dentro una giungla metropolitana che si fa giungla antropologica, dove la scrittura teatrale incrocia l’invettiva diretta, l’elenco mai troppo abusato degli scandali che sono di casa alla porta accanto: «Fissa perplesso una botola di ferro, di ingresso alla rete fognaria. Tung-Tung. Indubbiamente: viene da lì. Tung-Tung. Necessario agire. Scartata con coraggio l’ipotesi Godzilla, abbandona la scopa sull’asfalto, […] spalanca l’uscita, investito da un fiotto di olezzi fognari e lì… in quel preciso istante… ecco uscire in fila indiana da sottoterra rispettosi, salutando, sorridendo, un po’ gelati, […] una fila di cinesi, la Questura dirà 28 di cui 12 clandestini, età compresa fra i 40 anni e i 3 mesi».
I fatti precisi, le cifre incrociano in un ostinato andare a capo prosa e poesia, in una lente che procede per soggettive minute e sempre più puntiformi, con la libertà di cambiare tempi verbali e muoversi dentro il racconto della lingua in quanto tale. Lo stesso anno vede la luce Lo schifo, sulla vicenda di Ilaria Alpi, che ci porta letteralmente a spasso nella tragedia, quella globale e quella umana, con tirate come:
«Normale che qualcuno ti voglia vendere suo figlio.
Normale che un bambino ti mostri una pistola carica.
Normale che mentre piove un vecchio raccolga l’acqua da una pozza e se la beva.
Normale che si lavi un bambino dentro uno “uadi” dove galleggia un cane morto.
Proibito stupirsi, ormai lo so: è normale.
Ed è normale che giù per strada
all’improvviso
– così: dal nulla – sotto le tue finestre
si mettano insieme, una decina,
[…] a battere i tamburi
sudati marci
come impazziti
con le barbe rosse
i camicioni lunghi
alzando le braccia su in alto come ali nere
e giù, a battere, con tutto il palmo aperto della mano,
battere battere battere».
In Credoinunsol-odio la medesima attrice interpreta un’insegnante di storia ebraica, una studentessa palestinese e una militare americana. Una prima persona galoppante procede orizzontale alla macro-storia per infilare in quelle asole le trame di altre in micro, poi più micro, poi più micro: «Insegno la storia di tutti […] col punto di vista degli ebrei. Ogni volta che parto in aereo, quando decolliamo dalla pista, mentre i palazzi diventano piccolissimi e le città stanno dentro una mano, ogni volta penso al mio mestiere. Perché là sotto, piccoli come formiche, minuscoli, dentro le teste più piccole di capocchie di spilli, facciamo la guerra dei punti di vista.
Visto dal basso è un dramma: ci stai nel mezzo. Visto dall’alto in fondo è buffo». Di fronte a un tempo come dimensione anti-elastica, che letteralmente gira le viti del mondo, l’attaccamento al fatto di cronaca assume una valenza epistemologica nei confronti delle storie che racconta, la trama di concatenazioni, coincidenze, cronologie, conti alla rovescia e dati statistici passa attraverso personaggi che ne sono una inquietante cassa di risonanza sulla quale, fin dalla prima riga, la narrazione comincia a prendere la mira. Anche quando, è il caso di Tragoidè (2013), ci si tuffa nell’olimpo altisonante di nomi come Cassandra o Menelao è solo per riemergere in una Grecia contemporanea che ha le tinte nere di una graphic novel apocalittica: di nuovo un ritmo da camminata febbrile e la sfilza di nero-su-bianco che sembra voler togliere di mezzo la differenza tra battute e didascalie.
Didascalie carnali come quelle di Processo a Dio, in cui un’attrice reduce dal campo di concentramento chiede conto proprio all’essere superiore che avrebbe permesso lo sterminio: «È notte. O almeno così sembra, a giudicare dal riflesso bluastro che filtra dalle fessure di legno delle pareti. Regna una quiete eccessiva, inconsueta e sinistra: non c’è alcuna traccia di genere umano, né di razza superiore né inferiore». Il transfert che Guccini individuava nella creazione delle situazioni narrative si arricchisce sempre del respiro della Storia che ci riguarda tutti, che ci ha urtato come dandoci una spallata. È il caso della titanica opera Lehman Trilogy, 250 pagine di racconto sul collasso della più importante banca d’affari statunitense per alcuni alla base della crisi globale. Modernissima nel linguaggio, l’epopea sussurrata dei fratelli tedeschi, dalla loro immigrazione nel 1840 fino alle immagini dei lavoratori che raccolgono un intero ufficio in una scatola, vive di una musicalità che avrà di certo dato filo da torcere ai traduttori che in questi mesi si stanno occupando di far circolare l’opera in 14 altre lingue. Un’opera quasi grafica da ascoltare anche a occhi chiusi, come passando i polpastrelli su un complicato bassorilievo, come a cercare, tastando alla cieca, di individuare le connessioni in un mazzo di fili nascosti nel muro.
Sergio Lo Gatto
Questo articolo è apparso sul numero di Dicembre/2013 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.
Speciale Lehman Trilogy: leggi tutti gli articoli in archivio