TWINS, ATLANTA
di Simone Nebbia
Ho fatto un sogno. Un sogno a stelle e strisce. E l’ho chiamato America. Una bambina, sotto il bozzolo di una casetta trasparente grande quanto il suo raccoglimento, lascia andare in una filastrocca la fantasia onirica che allaccia il futuro al passato recente, in corso d’opera, la civiltà in disfacimento custodisce in grembo la muta della nascente, i presagi sovrappongono le speranze, il vento di guerra spazza via certezze antiche e le porta con sé, un’ombra lascia il corpo e si allunga a terra, si tende sconfinata a diventare storia. La bambina è Rossella O’Hara, Via col vento fugge il suo mondo e lei esce di casa, come una marionetta segue il battito del suo recitare, danza sul posto le proprie parole come una ballerina di carillon. Sarà mai altro per questa civiltà, per questa storia? Lei non sa, disconosce i motivi di una guerra che la priva dei sogni d’amore e dello stesso amore la investirà, eppure vi gira attraverso, conosce quella musica ma ne ignora la provenienza, la sua casa è di velo e di cristallo, non ha per sé più dello spazio circolare di una luce attorno.
Tutta la storia americana è storia recente. Questo pensiero – lungo un piovoso pomeriggio romano che presto diventerà sera e infine notte fuori le sale del Teatro Argentina – attraversa lo spirito di Francamente me ne infischio, spettacolo di Antonio Latella che ha confezionato in cinque movimenti e sette ore complessive, assieme ai drammaturghi Federico Bellini e Linda Dalisi, l’epopea di Via col vento, romanzo di Margaret Mitchell del 1936 portato al successo planetario dal film omonimo firmato Victor Fleming nel 1939. Nel sogno di Rossella – appartenente al primo movimento: Twins – vi è una proiezione iconologica che richiama, in una sequenza di quadri, veri o immaginari protagonisti mediatici in cui sia facile riconoscere il marchio “made in USA”, sotto la vigile esposizione di quella bandiera che è più di un simbolo, è una tensione verso le stelle slanciata dal bianco presunto dell’azione dei giusti, pur venata da strisce di sangue. Non se ne va mai, la bandiera. Si tende a far da paravento perché i vari personaggi prendano forma, si sventola e si indossa, si stringe in una morsa e si abbandona lungo il palco, per l’intero suolo americano.
Twins, gemelli. Il primo movimento è un tondo di luce su Rossella (una dolcissima Valentina Vacca), due bandiere gemelle tese come pannelli agli angoli del fondale. Nel suo sogno – fatti sempre di stelle e di strisce anche gli evocativi abiti di Marco Di Napoli e Graziella Pepe – c’è il viaggio della Alice di Carroll, i suoi fantasmi del futuro prendono vita per il corpo delle altre due attrici (trasformiste, Caterina Carpio e Candida Nieri), di volta in volta una Marilyn Monroe che sembra la fata turchina privata di magia, un estremo Zio Sam-Joker con i capelli verde acido, Bart Simpson anima autocritica degli States, King Kong rispedito in un altro film, la mela della Apple come vessillo tra i vessilli, Neil Armstrong che rivendica il suo allunaggio di fronte alle lamentela di una bambina che sa troppe cose e – in fondo – sulla luna non è sicura di voler andare.
In Atlanta – il secondo movimento – tutto muta e siamo in una scena metateatrale. Rossella è ora Candida Nieri e con le luci accese in sala cerca in platea l’accompagnatore del suo ballo; eroina sbagliata e per questo umana, è invasa dalla moda e dalle occasioni, scopre un’America in paillettes non sognata e già sogno altrui. Non il proprio. Le due donne con lei cercano di contenerla ma finiscono nel suo gioco d’apparenza, lei si mostra e l’America mostra la seduzione dell’evanescente.
In questi due movimenti c’è un sogno vagheggiato e di colpo un’intromissione di drammaticità, culminante nella disaffezione alla maternità di cui Rossella è accusata. L’America, icona pop di sé stessa, non è altro che la propria distorsione. Ma in quell’evanescenza una finzione si affaccia a sconfortare la percezione di una proposta spettacolare: lo stereotipo di Twins, scelto da Latella perché rappresenti i passaggi storici, non promuove che idee già note e di lieve interesse, rimostrando una critica sistematica che si vorrebbe complessa e svela invece la profondità didascalica di uno slogan: davvero siamo ancora di fronte a questo tipo di “declino dell’impero americano”? Provoca scandalo o indifferenza che Rossella-America sogni aerei per far crollare due torri gemelle? Marilyn canta ancora Happy Birthday Mr. President e muore – ancora – con i «barbiturici»? Neil Armstrong è quel goffo signore in accento maccheronico che viene scambiato per il ciclista omonimo? Il cinema di Hollywood ha già superato la critica a sé stesso, il grande romanzo americano di Auster o De Lillo ha raccontato anche l’involuzione delle aree periferiche e la suppurazione della metropoli, da più di dieci anni conosciamo la crisi dell’immagine come emozione diretta e la scomparsa della realtà. La critica che Latella pone verso questa America, stando a questi due movimenti e sostenuta da una playlist di musica pop, non è a una società in fondo già mille volte in altro trasformata? Abbiamo parlato spesso di teatro, proprio per la sua conformazione, come sotterranea avanguardia culturale. Possiamo dire questo spettacolo rappresenti il fronte o la retrovia?
BLACK, MATCH, TARA
di Andrea Pocosgnich
La casa è una visione, prigione angusta per tre Rossella; metafora di un amore divenuto gabbia mentale, quello per Ashley naturalmente. All’interno delle quattro pareti di bianco graticcio le tre donne svelano la propria nudità per poi nasconderla dietro a un patchwork di bandiere americane, le ritroveremo vestite di verdi e leggeri tessuti, ascese a uno stato angelico.
«La casa che è l’origine di tutte le case. La casa che è l’origine di tutte le cose». Il lavoro di Latella su Via col vento di Margaret Mitchell si chiude quasi con una performance installativa: in Tara il punto di arrivo teatrale sembra voler escludere il teatro tradizionalmente inteso, quello dialogico, ma anche quello fisico (ad eccezione dell’onnipresente scimmia e di una prima parte in cui le bandiere vengono disposte a coprire la visuale). Viene azzerata la parola dal vivo – mentre lo spazio è inghiottito da voci fuori campo e da una ritmica sonora presto ossessiva – e la stasi domina l’interno della casa. «Tara è un parco di dinosauri accasciati» ripete più volte la voce off e se avessimo un primo piano stretto sul viso delle protagoniste che indugi tra le curve delle labbra sarebbe una scena ideale per David Lynch; la firma di Antonio Latella, il suo sguardo in macchina, onnipresente nei suoi ultimi spettacoli, è il riflettore puntato ad altezza uomo, dalla casa si sprigiona una luce infuocata sulla platea che divora lo spazio visivo e costringe la pupilla a nascondersi e lo spettatore a spostare lo sguardo. Sembra che la casa abbia risucchiato il resto delle immagini: «L’America, icona pop di sé stessa», identificata da Simone Nebbia, lascia spazio a qualcosa di sfuggente e intimo che va oltre la semplice visione didascalica.
D’altronde la sterzata dal pop era già completata con Match, dialoghetto a tre nel quale le attrici vestono i panni degli uomini, al centro dei discorsi naturalmente vi è Rossella, presente nella propria assenza come un Godot arrivato e poi sparito; ed è infatti un tentativo che guarda anche al teatro dell’assurdo, ma sembra girare a vuoto senza concretizzarsi. Certo è una variazione sul tema e vista proprio tra Black e Tara è il momento di passaggio, è quella soglia che, una volta attraversata, lascia implodere il dialogo stesso decretando la sconfitta della fiction per convergere nello spazio asettico dell’installazione.
Ma prima appunto vi è Black, terzo episodio, variazione di mezzo, momento nodale e apice di quel tentativo di racconto dell’America più nera. Fotografato nella frontalità di un concerto scenico a tre voci per tre microfoni: la bianca Rossella e ai due lati le umanità sacrificate sull’altare del capitalismo a stelle e strisce, l’indiana e la nera. Ma anche la bianca Rossella nasce dalla bestia: Caterina Carpio suda nel costume da scimpanzé, al microfono sperimenta la lingua, cerca la parola tra suoni gutturali e animaleschi, si dimena mentre la partitura musicale sputa fuori brani del film di Victor Fleming, per poi rinascere e quasi sottomettere la scimmia che era al proprio corpo nudo. Rossella incarna la colpa, schiacciata qui tra due delle minoranze che compongono la complessa geografia del melting-pot americano. La scrittura postdrammatica è postmoderna nei contenuti, la rivincita di Mami è una finestra aperta su quella notte degli Oscar in cui venne premiata la prima attrice di colore della storia, Valentina Vacca è pungente e ironica. L’acme lo tocca ancora una volta Carpio, a trascinarci nella discesa agli inferi più bui dell’America ci pensa la pagina 567 (dichiarata dall’attrice) del romanzo, e non c’è scampo perché finalmente la didascalia lascia il posto alla forza del racconto, dal tentato stupro ai danni di Rossella alla vendetta del Ku Klux Klan è un sospiro. Rossella è accasciata a terra e chiede vendetta, ecco, in quel sospiro, in quelle lacrime che chiedono le teste dei due attentatori neri, lì nel mezzo del qui e ora teatrale c’è l’America, c’è l’Occidente.
Visto al Teatro Argentina in gennaio 2014 [Cartellone 2013/2014]
Vai a Francamente me ne infischio. Black (Antonio Latella) – Sguardi di Quinta
FRANCAMENTE ME NE INFISCHIO
5 movimenti liberamente ispirati a Via col vento
1.TWINS 2.ATLANTA 3.BLACK 4.MATCH 5.TARA
Drammaturgia di Federico Bellini, Linda Dalisi e Antonio Latella
Con Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca
Scene e costumi Marco Di Napoli e Graziella Pepe
Musiche Franco Visioli
Luci Simone De Angelis
Movimenti Francesco Manetti
Regia Antonio Latella
Assistente alla regia Francesca Giolivo
Datore luci Roberto Gelmetti
Fonico Giuseppe Stellato
Realizzazione costumi Cinzia Virguti
Produzione stabilemobile – compagnia antonio latella, La Corte Ospitale
In collaborazione con Emilia Romagna Teatro/Vie Scena Contemporanea
Un ringraziamento speciale a Trippen Berlin, Teatro Elfo Puccini, Teatro Comunale di Laurino, Laura Marinoni, Patrizia Bologna, Rosa Futuro