Non c’è dubbio che il teatro sia luogo della finzione, forse potremmo discutere fra chi del posticcio abusa e confina al palcoscenico l’arte di rappresentare e chi invece ne fa un uso non finalistico ma materiale, fulcro di una trasformazione in altra e granulosa materia che dal palco si staglia per ritornare nel mondo contemporaneo. Forse sì. O forse invece, nella notte della cultura nazionale, di qualche lume ancora avremmo bisogno per ridefinire certi confini che appaiono nebulosi. Se in teatro parliamo di finzione, nell’uno o l’altro caso, esso è inteso come condizione esistenziale, contiguità empatica fra azione e intenzione, che sia diretta o trasversale, non certo dunque stiamo considerando il teatro come luogo fisico, spazio delimitato in cui far ricorrere l’azione perché inneschi reazione. Se al primo concediamo almeno apparente evanescenza (che chiameremo “fool”), di un teatro come edificio non potremmo ammettere il difetto di concretezza, perché la sua solidità strutturale sarà condizione necessaria all’opera di trasformazione teatrale, altrimenti travisata. Non è un caso, dunque, che le sale per lo spettacolo contemporaneo abbiano in comune una visuale quanto possibile dall’alto al basso e le pareti a fondo nero.
Proviamo a fare un esempio. Entriamo in un teatro e abbiamo la sensazione di trovarci a sella di cavallo di fronte al ponte levatoio di un castello, tenuti a distanza d’accesso per un profondo fossato percorso da un fiume che suggerisce presenza di draghi e coccodrilli, promesse di spada e feroci battaglie di una vicenda cavalleresca. Se dunque questa è la sensazione ma si vorrebbe invece convocare gli spettatori per evocare ben altre immagini e occasioni che un poema medievale, probabile che il fraintendimento nasca a causa della struttura in cui tutto questo sta avvenendo. Ossia, il teatro. Devitalizzando allora la percezione sensibile, si vedrà con chiarezza che l’idea di fossato non è data dall’occasione teatrale, bensì dal fatto che in quel particolare teatro un architetto lungimirante abbia previsto un dislivello tra palco e platea di “appena” un metro e mezzo, con otto scalini per raggiungerlo a far da ponte levatoio. Il fiume, il fiume è quello che annega la percezione di chi vorrebbe vedere più della testa di un attore, misurarsi alla sensibilità, finendo coinvolto in un’ondata complessiva di oblio che non produce altro da incubi di rettili e sputafuoco.
Villa Torlonia. Già all’inizio dell’Ottocento l’architetto Giuseppe Valadier, incaricato da Giovanni Torlonia, ridefinì la linea secondo i tempi, razionalizzando con l’acquisto e la posa di sculture d’arte classica il lustro e la magnificenza di un terreno d’origine agricola. Il teatro, la cui costruzione era cominciata nel 1841 su progetto di Jappelli e terminata da Giovanni Raimondo trent’anni dopo, dal 1978 appartiene al Comune di Roma che negli ultimissimi anni ha deciso di destinarla ad attività teatrali, sotto il controllo della Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea, ideatrice per questi locali di un bando di residenza artistica. Ci siamo già occupati del bando in altri articoli di Pocosgnich e Graziani, con anche una lunga intervista al direttore Emanuela Giordano, ma in occasione dell’ultimo Premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti 2013 abbiamo anche avuto modo di verificare lo spazio e, soprattutto, accessi e accessori.
Sul retro di una facciata maestosa in bianco palladiano e vetri (peraltro inaccessibile per questo evento), l’interno lascia di stucco per l’inadeguatezza proprio dello stucco alla necessità cui il luogo è stato destinato (vai alla photogallery completa di Futura Tittaferrante) Affreschi, intarsi e bassorilievi tra la cupola e l’altare (pardon, il palco), statue in edicola e colonnato corinzio lungo tutto il semicerchio della platea, due piani di balconata con balaustra e una luminosità ad arco che raccoglie il rimando delle pareti chiare e dei tre sipari sfrangiati giallo opaco, lo stesso colore delle pareti interne al palco, là dove ogni posa di una quinta sarebbe come l’innesto di una mano in mezzo al petto. Credere alla finzione è possibile se la contiguità dello spazio perimetrale non denuncia fratture e quindi intenzioni semantiche, anche non volute. Eppure in questo teatro gli stessi materiali lasciano pensare, come quando al semplice tocco (senza autorizzazione della sovrintendenza, lo ammetto) di una colonna dai capitelli più sfarzosi, si scopre con delusione il legno vuoto laccato bianco del fusto scanalato con cui non il teatro è stato costruito, ma in virtù del quale è stata restaurata un’idea di teatro che risale forse all’epoca della sua costruzione. Insomma dopo la rivoluzione del postmoderno, la regressione del “postantiquato”.
L’improvvisazione con cui vengono compiuti certi restauri è pari soltanto all’idea che un lavoro ben fatto sia facciata da presentare, anche perché nessuno fra i committenti con portafoglio avrà la competenza per verificare ciò che davvero occorreva fare. E non può essere, come dice la stessa Giordano nell’intervista, un luogo dove chi sta in periferia può sperare di presentare il proprio lavoro, è inammissibile che si pensi all’opera d’arte come una riabilitazione sociale secondo il contesto, dimenticando le condizioni necessarie perché esista. È ancora un concetto dedito all’amministrazione e non all’arte.
E allora abbiamo visto una serie di proposte per il contemporaneo con problemi inficianti lo stesso premio: un attore (Enoch Marrella) sparito senza neanche più la punta delle scarpe o un ciuffo di capelli quando ha tentato di compiere qualche movimento a terra, un pavimento a lastroni diseguali su cui ogni danzatore lascerà una fetta di piede, una graticcia impossibile nascosta oltre i tre sipari sulla testa degli attori (con quindi un raggio d’illuminazione ridotto a qualche grado di rotazione). Così qualcuno ha pensato di cogliere l’opportunità come i giovani attori di Falsae Praetextae che hanno fatto spettacolo tra il boccascena e la platea o la vincitrice, Francesca Cola, che invece si è ribellata e ha proposto il suo In luce, assolo di danza decisamente gravido di promesse, allestendo una piccola platea direttamente sul palco, ai suoi lati (pochi però, con tutti gli altri a sforzare gli occhi da sotto), fornendo agli spettatori già da lungimirante progetto una torcia per illuminarla e comporre insieme una drammaturgia, perché al di là del luogo presunto scenico torni ad essere primario il contatto fra chi compie l’azione e chi vi reagisce, contatto in questo caso bidirezionale e in ogni caso autonomo dalle scelte politiche, strutturali, convenienti, disinteressate all’opera. Soltanto, se la mostra corrisponde all’intenzione, scelte artistiche.
Simone Nebbia
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In linea di massima penso di esser in accordo con Simone, come penso che lo sia il restauratore del luogo.
Informandosi prima minimamente si scopre che il teatro non è stato ricostruito per farci spettacolo, ma per essere principalmente un museo. Solamente tre mesi fa circa è stato deciso il cambio di uso o meglio l’uso accessorio come teatro.
La prima cosa che viene detta a chi va a fare il sopralluogo per il bando è che principalmente quel luogo è un museo e che ad esempio le prove dovranno sottostare anche agli orari di visita dei turisti.
Piccola cosa che magari Simone non ha preso in considerazione:
quella che ora è la platea, era la buca dell’orchestra e perciò non era importante una visuale perfetta.
Il pubblico era solo sulla prima e seconda balconata, anche perché questo era un teatro di corte e non aperto al pubblico.
Probabilmente avrebbero dovuto pensare ad una eventuale regia (e magari altro spazio scenico) in quella che ora è la platea e aprire la seconda balconata al pubblico, avendo così meno poltrone, ma più visibilità.
Creare così qualcosa di “innovativo” in uno spazio che innovativo non è.
Però chiaro è che questo discorso non è stato possibile avendo già fatto un miracolo in poco tempo, rendendolo agibile per un teatro che non esisteva all’epoca (pensiamo all’elettricità, al video e ad americane elettriche ad esempio)
Però perché non proporre una rivisitazione in linea con la musealità (chissà se si può dire) del luogo, per eventi con pubblico più ristretto che tra l’altro gioverebbero anche all’attesa visto che si tratta di un teatro senza foyer (all’epoca non serviva) cosa che sicuramente Simone non ha notato arrivando forse come al solito all’ultimo minuto utile 😉
(e che nun te la tiravo una frecciatina?)
Caro Dario, grazie del tuo intervento esaustivo che completa il quadro. Un teatro non costruito per fare teatro non è di per sé un problema, molti sono i musei anche a volte non riconosciuti come tali. Forse però ideare un bando per fare teatro in un teatro simile sì.
Non ho inteso evidenziare la portata storica perché semplicemente non era nei miei interessi, bensì lo era ravvisare quanto poco fosse adeguato a ciò che intende ospitare. Tutto qui. Quindi poi in un altro potenziale articolo storicizzante parleremo della buca per l’orchestra, del normale uso novecentesco di rifare il marmo in legno laccato…ma non ora.
E poi sì, dici bene, sono arrivato all’ultimo minuto e anche oltre, ma sempre meglio di chi ha preso il Premio per una gita in campagna…e meno male che non c’era il foyer altrimenti cominciavamo un’altra ora più tardi 😉