Siamo nell’era dell’ossessione del corpo, abbracciata dai salutisti o dai maniaci dell’immagine, corpi mercificati, corpi osannati o ostentati; era culturale ancor prima che teatrale, essa trova spunti e radici fin dai primi anni del secolo scorso, dalle scoperte in campo medico, dalle rivendicazioni di genere fino alle rivoluzioni dei concetti d’attore e di messinscena. Con simili premesse si sviluppa Nell’ardore della nostra camera, visto al Teatro Tor Bella Monaca all’interno della sesta edizione di EXIT e messo in scena dalla compagnia del Teatro dell’Applauso per la regia di Marco Maltauro. A loro il merito di aver portato alla luce un autore contemporaneo come Massimo Sgorbani, poco rappresentato in Italia. Forse perché si tratta di «un testo difficile» come viene detto a noi sparuti convitati poco prima dell’inizio, mentre sul palco si predispone a vista la scena con quelli che la compagnia stessa definisce alcuni degli «ingredienti dello spettacolo», una vedova e il marito morto.
Due antitetiche preparazioni al ruolo per altrettanto antitetici personaggi, estremi tra immobilità e frenesia: lui, vestaglia da sportivo, sembra allenarsi per la propria ultima performance poco prima di salire sul lettino mortuario; lei, viva, verrà vestita di un armamentario di tubi, bustini, catene e bulloni che per tutto lo spettacolo diventeranno esplicitazione metaforica della propria condizione sociale sottomessa, e quindi rovesciata con forza e rabbia al capezzale del marito. Ma se attraverso il monologo la donna (qui interpretata da Elisa Faggioni, ideatrice della compagnia) riscatterà il proprio corpo femminile costretto a subire l’irruenza anche sessuale del marito, quell’armatura di tubi è anche visualizzazione della malattia che l’ha colpita e di cui parla in maniera quasi ossessiva, un’anchilosi degenerativa che le impedisce ormai da anni il libero movimento. L’elemento scenico allora vorrebbe assumere valore tanto quanto il corpo dell’attore, il flusso di parole quanto l’accessorio del costume. Ciò che non convince pienamente è che proprio questo corpo martoriato rimarrà identico a se stesso, la fatica e l’ostacolo non coinvolgeranno l’interpretazione che anzi rimarrà tra l’ira contratta e una rabbia che al più deforma il viso, senza sfoghi, senza aperture. Come a dire che la progressiva catarsi coinvolge la narrazione – intesa come genere letterario – più che il narrare.
Sgorbani attraverso questo elogio funebre al contrario riesce a costruire con la rievocazione del ricordo un mondo popolato di personaggi torbidi, dal marito costruttore ossessionato dal culto dell’erezione (che sia edile o sessuale non farà poi molta differenza), da questa moglie irata e sottomessa fino ai figli, specchio amplificato delle deformazioni dei genitori. Speranza di tutto è una resurrezione del corpo, che forse non avverrà mai, ma che spingerà a compiere atti estremi e disperati. Così racconterà la moglie, ma di tutta questa forza, di tutto quel coraggio a provare a mettere in atto una rivoluzione del pensiero, un ribaltamento di questo culto della carne, non rimarranno che le parole.
Viviana Raciti
Visto al Teatro Quarticciolo in Dicembre 2013
NELL’ARDORE DELLA NOSTRA CAMERA
di Massimo Sgorbani
con Elisa Faggioni e con Luciano Santilli
regia di Marco Maltauro
Compagnia Teatro dell’Applauso