E se esistesse un’isola in cui i padroni non fossero più tali e gli schiavi potessero prendere il potere smascherando tutte le malefatte che sono stati costretti a tollerare, al fine di riportarli sulla retta via? Questa è l’utopia raccontata da Pierre Carlet De Marivaux ne L’Isola degli schiavi, opera scritta nel 1725 in quello che è da un lato il secolo dei lumi, e dall’altro florido momento della cosiddetta Commedia dell’Arte. Dunque insegnamento morale (o moraleggiante) e divertimento, in una commedia che in questi giorni e fino al 22 dicembre verrà messa in scena da Federica Tatulli presso il Teatro Eutheca.
A popolare questo sogno fatto di sabbia e cumuli di stracci, saranno due nobili a cui si affiancheranno due servi dal noto nome: Arlecchino e Colombina. A capo dell’isola sulla quale approderanno governa Trivellino a cui è affidato il compito di guidare i naufraghi in una sorta di percorso di riabilitazione. Solo alla fine di questo, riconosciuti vizi e debolezze grazie al “saggio governo” dei servi, si potrà ritornare a casa – non a caso la Tatulli conserverà per sé il ruolo del borghese illuminato che tiene le fila degli accadimenti, oltre che di tutto lo spettacolo. Beffe e intrighi amorosi saranno i motori principali dell’azione trainata dai due servi furbi, che si risolverà in un carnevale di caricature dei comportamenti nobiliari, fino al ripristino dell’ordine iniziale, ma con un po’ più di benevolenza. Contrariamente a quanto potrebbe apparire, l’utopia raccontata non è risolta in un invito alla rivolta sociale (mancano ancora più di cinquant’anni alla rivoluzione) perchè il testo pone piuttosto l’accento sul carattere personale da correggere. Non un sovvertimento del potere ma un’inversione momentanea di ruoli che, per quanto volta al riconoscimento dell’umanità di chi è sottomesso, non fa altro che confermare la gerarchia iniziale, suggellata da un abbraccio tra schiavo e padrone con la promessa di un trattamento meno crudele. Non una parità di diritti ma, ed è già volendo un risultato, la possibilità di dialogo.
Nel tentativo di contemporaneizzarlo senza uscire dai binari del testo, però, risulta sfumato il legame tra le tematiche affrontate e la “strizzata d’occhio alla realtà contemporanea per certe allusioni alle devastazioni ambientali”, forse più rappresentata da scelte scenografiche che da una decisa idea registica, la quale accenna senza affondare: troppo deboli allora gli accenni presenti in battuta, che destano al più un fugace sorriso. Ci dimenticheremo ben presto delle proiezioni iniziali che mostrano riprese di disastri ambientali o di disordine sociale, così come probabilmente daremo poca importanza alle molte lattine vuote o ai rifiuti lasciati a decorare il letto di sabbia che ricopre il palco ai nostri piedi; l’ombrellone azzurro rimanda ad una nostra idea di spiaggia senza quella critica che servirebbe a scardinarla. Ci concentreremo, come da programma, sulla progressiva messa in ridicolo dei nobili, svelati nella civetteria o nella sconsideratezza, ma anche su questi servi poco inclini a far da padroni, ridicoli nel ruolo di soavi innamorati, troppo “saggi” per rimanere potenti, disposti a perdonare pur di ritornare alla propria “beata” condizione.
Tuttavia i delicati equilibri di quest’opera, in bilico tra “dramma didattico” e commedia amorosa, rischiano un inutile appesantimento se, come più volte in questa messinscena, non sono supportati da un ritmo brillante e da una leggerezza di toni che non prevedano mai un tempo immobile, mai un ripensamento, mai un buco. Certo, Iphicrate e Euphrosine, i padroni sbeffeggiati, non passeranno sempre dei bei momenti, visto che il loro malcontento sfocia spesso in un tono tragico poco adatto all’ordine generale e la caratterizzazione eccessiva dei due servi non sempre rende funzionale il loro agire. Ad ascoltare la pacatezza di Trivellino nel suggerire l’esempio migliore, quello di coloro che hanno vissuto un lungo percorso, rischia di venire in mente il paternalismo di certi esploratori che, giunti in luoghi dalla cultura diversa, pretendevano di giudicare tutto secondo il proprio metro. Qui ancora una volta il ribaltamento è solo in superficie; in quell’utopia persa nella sabbia ci si ricorda solo dell’astrattezza del pensiero dimenticandosi della forza sovversiva del riso.
Viviana Raciti
L’ISOLA DEGLI SCHIAVI
in scena al Teatro Eutheca fino al 22 dicembre
Di P.C.DE MARIVAUX
Traduzione di F.DE MARTIN
Regia di FEDERICA TATULLI
Scene di Francesco Persico
Costumi di Mariella D’Amico
Disegno luci di Luca Barbati
Aiuto regia Salvatore Costa
Con FEDERICA TATULLI, ROMANO TALEVI, GIOVANNI GRASSO, ILARIA PIEMONTESE, LORENA RANIERI