Il 7 dicembre a Roma è stato inaugurato il Teatro di Villa Torlonia, che si va ad aggiungere al circuito cittadino della Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea, inaugurato dalla giunta Alemanno. Dopo neanche ventiquattro ore, sui social network, si scatenano le polemiche: il teatro, che si trova all’interno di un gioiello architettonico, è stato ristrutturato senza tenere in considerazione i parametri dello spettacolo contemporaneo: scarsa visibilità, palco troppo alto. Ovvero un luogo che nega il teatro come è oggi. Il problema della ristrutturazione dei teatri, lungi dall’essere un problema romano, è una deriva drammatica che riguarda l’intera nazione – e bisognerebbe trovare la sede per discuterne. Le amministrazioni pubbliche italiane, pur cariche di buone intenzioni, spesso ristrutturano spazi senza la consapevolezza di cosa deve svolgersi al loro interno (a volte seguendo concezioni della visione teatrale così antiche che sorge il dubbio che la formazione degli architetti sia anch’essa avvenuta nel Settecento). Insomma, si fabbrica o si ristruttura la scatola senza tenere in considerazione le caratteristiche del contenuto.
Non che sia una novità. L’Italia è Paese delle scatole vuote. O, addirittura, delle scatole che divorano il contenuto. Perché gli apparati gestionali – altrettante scatole che dovrebbero provvedere a preziosi contenuti artistici – finiscono per divorare buona parte degli stanziamenti. Basta pensare alla stessa Casa dei Teatri. Il circuito, composto da sei teatri cittadini con una propria direzione artistica assegnata a bando, dispone anche di un ente centrale che gestisce parte della programmazione degli spazi stessi con finalità di promozione della drammaturgia di oggi. Una finalità che di recente si è esplicitata attraverso la rassegna “Ma che cos’è questa drammaturgia contemporanea?” (titolo che dai linguaggi del contemporaneo è piuttosto distante). Di soldi per il teatro, in questi tempi di crisi, ce ne sono pochi, e così la rassegna proponeva condizioni non troppo vantaggiose: si andava “a incasso”. Nel caso delle compagnie non romane, questo ha significato sobbarcarsi dei costi di viaggio, vitto e alloggio, rendendo utopica la copertura delle spese. Non solo: il contratto prevedeva che, in caso l’incasso non ci fosse stato, i costi Siae (comunque dovuti) sarebbero stati a carico della compagnia. E in diversi casi, in effetti, il pubblico e di conseguenza l’incasso è stato esiguo.
I soldi pubblici, in teatro, dovrebbero essere indirizzati a due soggetti collettivi: gli artisti, che devono poter operare al di là delle logiche commerciali; e il pubblico, a cui va garantita un’offerta culturale di livello. Di fronte a una situazione del genere occorre, allora, cominciare a porsi qualche domanda. Ha senso un sistema teatrale che scarica i costi sugli artisti ma garantisce la scatola e i relativi stipendi che comporta? Se le risorse non sono sufficienti, non è meglio ripartirle in modo diverso, magari investendo su quattro teatri in grado di fare programmazioni a cachet, invece che su sei spazi scaricando i costi sugli artisti? E poi perché raddoppiare gli operatori in campo, affiancando un ente centrale alle sei gestioni messe a bando? Perché prevedere una copertura economica per la direzione del circuito e non per le professionalità che sono chiamate a comporre il cartellone?
L’altro aspetto fondamentale su cui interrogarsi, poi, è la formazione del pubblico. È ovvio che il teatro d’arte non faccia grandi numeri: si farebbe un grave errore a valutare una programmazione a partire dallo sbigliettamento che fa: ci sposteremmo sulle logiche del teatro commerciale. Ma non si può neanche pensare che il pubblico si materializzi da sé, facendo comunicazione. Per invertire la tendenza in cui è immersa la nostra società, dove all’arte del teatro, se non c’è la garanzia del grande nome, si guarda il più delle volte con sospetto, occorre investire sulla formazione.
Ecco, questi sono solo alcuni spunti. Ma forse è il caso di cominciare a porci, collettivamente, interrogativi come questo. Perché altrimenti continueremo a fabbricare scatole meravigliose, ma che a scartarle rischiano di rivelarsi tristemente vuote.
Graziano Graziani
Questo articolo fa parte del dittico Scatola e contenuto vol. 1 e vol. 2
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