Filippo Gili, attore di formazione accademica con all’attivo anche alcune militanze con Luca Ronconi, è anche regista e autore. Dopo la felice prova di Prima di andar via, interpretato e scritto per la regia di Francesco Frangipane, e dopo una più debole versione di Spettri di Ibsen (dal titolo L’ultimo raggio di luce), ritroviamo ora l’artista romano alle prese con adattamento, regia e addirittura traduzione di un nuovo Gabbiano di Anton Čechov. Se sembra che Gili – il quale si ritaglia anche il ruolo minore di Samraev – sia riuscito a trovare il giusto equilibrio tra tragedia e dramma leggero è perché, come poche altre versioni che ci è capitato di vedere, ha lasciato che un’attenta analisi si occupasse di sezionare le battute, certo, ma anche ha impedito a ogni possibile forzatura registica di infiacchire l’energia dirompente della parola dell’autore. Che, ricordano le cronache, si era stupito della lettura “tragica” dei suoi drammi offerta da Stanislavskij, credendo lui «di scrivere vaudeville».
In questa versione compaiono tutti i personaggi (eccetto “un operaio” e “il cuoco”), nessuna riduzione o amalgama corrompe i fitti e complessi rapporti tra loro, in cui la penna di Čechov è in grado di far passare la trama inafferrabile delle relazioni familiari, dell’amore non corrisposto, del sogno di gloria in una Russia povera e ancora separata dieci anni dai primi venti di rivoluzione, addirittura quella dell’evoluzione dei linguaggi dell’arte e della scena, che proprio a cavallo del secolo avrebbe trasformato l’intero paese in un «paradiso del teatro», come sosteneva Mirella Schino. C’è l’amore della giovane attrice Nina per il celebre e tormentato scrittore Trigorin, la gelosia per questi nutrita dal giovane «borghesuccio» bohémien Kostja che per Nina sarebbe pronto a tutto, l’eterno odio-amore tra Kostja e la madre Irina, attrice di successo che vede sgretolarsi la sua giovinezza, la noia arrabbiata del fratello di lei, lo zio Pëtr, costretto a finire i suoi giorni su una sedia a rotelle nella campagna che per lui è simbolo del fallimento di un’intera vita. Questi e molti altri incroci si snodano con una agilità forse irripetibile, senza rinunciare mai a raccontare, nell’arco esatto delle stesse brevi e sincopate battute, ora l’animo umano, ora il progredire di un popolo di artisti che a breve sarebbe diventato il faro della cultura Europea.
E questo è il testo di Čechov. La regia di Gili vi si inchina senza piegarsi, tenendo sempre un attento sguardo sull’intera scena, che il pubblico – disposto su due gradinate che si fronteggia – vede riempirsi di movimento, di respiri, di chiacchiere di fondo, di sguardi mandati a spasso di angolo in angolo. Molti scambi di battute chiave vengono incastonati dentro scene di massa, che Gili manovra con grande sapienza lasciando allo spettatore il compito di scegliere la variazione più significante, la pausa più intensa, in una perenne prospettiva quasi cubista, in cui “primi piani” di volti rigati da lacrime si trovano accanto a schiene voltate o sguardi persi nel vuoto. Nessuna musica, nessun effetto sonoro, pochi, pochissimi oggetti utili a questo gruppo di attori-operai, una sorta di assordante alveare di sentimenti su cui Gili, a volte, ama far calare qualche pesantissimo silenzio: il segno dell’avanzare crudele del dolore, del tedio, certo, ma anche un più sottile pegno offerto alla concentrazione sacra che unisce attori e spettatori.
Di fronte a una regia che pretende molto, a una messinscena di certo non umile, nelle oltre due ore e mezza di spettacolo l’attenzione non lascia quasi mai la presa, grazie ai ritmi vitali che gli attori sono in grado di creare. Comporre un ensemble di professionisti molto sicuri di sé scopre a volte il fianco all’attacco del gigioneggiare o, invece, del tirar via le battute in un atteggiamento cinematografico. Ma quasi sempre ha la meglio una grande misura, che riesce a far emergere la sincera e disperata urgenza con cui Gili voleva narrare ancora questa storia. Siamo in ascolto di qualcosa di chiaro e necessario. Di che altro abbiamo bisogno?
Sergio Lo Gatto
al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 15 dicembre 2013.
IL GABBIANO
traduzione e adattamento di Filippo Gili
con: Apollonia Bellino, Massimiliano Benvenuto, Vincenzo De Michele, Filippo Gili, Arcangelo Iannace, Aglaia Mora, Maria Claudia Moretti, Omar Sandrini, Vanessa Scalera, Beniamino Zannoni
scene: Roberto Rabaglino, Noemi De Santis
costumi: Daria Calvelli
luci: beppe Filipponio
aiuto regia: Rosanna Gargano