Dalle estremità del buio si allacciano in filamenti alla percezione, le parole che Elena Bucci estrae dalla sua Eleonora Duse, tra le maglie calde e avvolgenti del Teatro Argot Studio di Roma. La sagoma dell’attrice si avverte dopo qualche secondo in cui le parole stanno già danzando per lo spazio, inutile chiedersi in quale direzione, sono ovunque, attorno, dentro. Non sentire il male, dichiara questo suo spettacolo del 2000 firmato Le Belle Bandiere che fino ad oggi ricalca la figura dell’altra attrice, quella “Eleonora” senza cognome cui è dedicato – da sottotitolo – uno spettacolo non casualmente definito da Franco Quadri su La Repubblica (26 maggio 2001) «un atto d’amore», verso la donna, verso il mestiere d’attore. Ma è importante questo nome proprio. Questo, proprio, il nome. Eleonora. È una biografia che non serve, è una donna incatenata al suo corpo d’attrice, come l’attore fosse una nemesi dell’umano, la sua trasfigurazione, i paramenti della sua morte.
«Io detesto le biografie, nessuna è esatta», dice Eleonora per voce d’Elena. E tanto basta a capire che la biografia, o ciò ch’è peggio l’autobiografia, è un nemico dell’arte dell’attore, un continuo sforzo di mantenere in vita l’effimero, ciò che non esiste nell’atto di palesarsi. Eppure una vita nel farsi racconto ha bisogno di frammenti ed episodi, si sfalda l’unicità e solo allora, la vita, si fa memoria. Inarrestabile la forza che consegna al tempo presente la Duse attratta fuori dalle parole di Elena Bucci, come un bozzolo d’altra e precedente vita dischiuso al buio monastico di un richiamo temporale.
Due tagli di luce da dietro le quinte – ridotto per l’occasione lo spazio scenico del palco romano – affascinano le spalle dell’attrice, la spingono verso il centro scena che ancora non guadagna, finché due ombre laterali non la staneranno da quel buio diventando sagoma dell’artista e di quello stesso buio – quindi, ancora, di lei – la gigantografia. Quando viene avanti verso la platea, le ombre indietreggiano lasciandole il passo, segno vivente fra i mobili nascosti sotto un telo bianco, sepolti. Ha un abito lungo, da sera, sotto un esile cappotto di pelliccia, una valigia resta dietro di lei tra le due pareti di quinta, lì da dove era arrivata. Il dialogo fra il suo corpo e la luce stupisce e affascina come sentirsi parte di un segreto, il tocco del compianto Maurizio Viani – grande creatore di ambienti luminosi per Leo de Berardinis, Danio Manfredini e tanti altri, scomparso da quasi due anni – è ora perpetuato dalle mani sapienti di Max Mugnai, anima di Fortebraccio Teatro fin da allora autore anche del suono, capace di parlare una lingua cadenzata e avvolgente come l’interazione di un coro attorno alla figura.
Con il dipanarsi della vicenda, si fa largo un sentimento da indagare, come non si riuscisse bene a capire se ci si trovi di fronte a una donna con dentro un’attrice o un’attrice, in tutti i suoi disagi trattenuti, con dentro una donna. In questo è il merito di Elena Bucci, l’aver saputo raffinare il dialogo fra il corpo e le ombre (ora due, ora quattro) attraverso gesti in cui covano evocazioni dell’attrice sul palco nell’atto di dare corpo a uno dei suoi personaggi, mentre si ascoltano stralci della sua biografia tra gli uomini come Boito e D’Annunzio, successi e cadute di un mito di là da venire. Solo nel gesto è rintracciabile l’artista della scena, impossibile l’iconografia d’imitazione, impossibile l’immagine senza tener conto dell’umanità che la genera (suggerisce così anche un interessante saggio di Silvia Mei proprio sulla Duse contenuto negli atti del convegno Voci e anime, corpi e scritture, Venezia, 2008; pubblicato da Bulzoni nel 2009, a cura di Paolo Puppa e Maria Ida Biggi). È la stessa Eleonora che dichiara: «Sono diventata un’attrice, non più una donna» e poi ancora «posso recitare senza corpo, senza voce, senza niente: posso recitare anche senza di me». Ma sembra dire la Bucci che la sua vita abbia preso anima dal suo mestiere, che recitare è essere e in quel bozzolo – l’attrice – è già nell’intenzione il volo leggero di una farfalla di palcoscenico.
Simone Nebbia
Visto in dicembre 2013 al Teatro Argot Studio
Roma
NON SENTIRE IL MALE
dedicato ad Eleonora Duse
di e con Elena Bucci
disegno luci per il teatro di Maurizio Viani
disegno luci in altri spazi di Loredana Oddone
luci Max Mugnai
cura del suono di Raffaele Bassetti
assistente all’allestimento Gaetano Colella
cura Nicoletta Fabbri