Bisognerebbe smettere di intendere la cura esclusivamente come un fattore meccanico, lo spazio di guarigione come luogo in cui dispensare algidamente prognosi gestendo il paziente al pari di un numero o peggio identificandolo col proprio malessere. Colmare questa mancanza, sia essa d’ordine medico o sociale, è stato un compito che l’arte si è assunta in svariate forme lungo tutta la storia occidentale (e non solo), ritrovandosi a partire dal Novecento ad affiancare se non addirittura a sostituire i consueti processi riabilitativi: sollievo, distrazione, mezzo per analizzare o accettare il non appreso, l’arte è diventata terapia. La ritroveremo nelle carceri, nelle corsie d’ospedale, nelle scuole o semplicemente in tutte quelle zone che necessitino di una cura particolare.
Per la prima volta in Italia simili ragionamenti trovano luogo in un festival multidisciplinare che affianca performance, concerti e dibattiti all’interno di un ospedale, il San Camillo Forlanini in pieno quartiere Monteverde a Roma. Dal 13 al 15 dicembre si è tenuta la prima edizione del Festival delle Eccellenze nel Sociale, ovvero Lo spettacolo fuori di sé, un tentativo per andare oltre oltre l’essenza spettacolare attraverso la messa in atto da parte di realtà artistiche liminali. Soggetti che della loro diversità non solo non ne hanno fatto un problema, ma l’hanno al contrario innalzata a peculiarità vitale. Come cuore di tutto vi è Lo spettacolo antidoto contro il disagio (SACD) progetto speciale curato da Artinconnessione, sviluppato dall’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale e sostenuto da importanti istituzioni come ad esempio il Mibact. Nonostante le innumerevoli difficoltà incontrate e raccontateci dal suo ideatore Angelo Zaccone Teodosi, il progetto giunge ai suoi primi obiettivi di mappatura del territorio di tutte le esperienze artistiche dal vivo che hanno a che fare con il disagio, proponendosi anche impegni di più lunga gittata, di riconoscimento, di modellizzazione e di messa in rete. L’obiettivo è quello di superare la generica diffidenza istituzionale che non vede nella sperimentazione arte-terapeutica una letteratura scientifica – numerosa e ampiamente convalidata – sufficientemente riconosciuta al punto da poterla sovvenzionare.
Si tratta sicuramente di un grosso impegno, che però lascia i segni già in questo suo start up, il quale oltre a mostrare alcune “eccellenze”, più o meno note, più o meno verificate, anziché essere solita vetrina dimostrativa, si propone come luogo in cui esporre idee, mettendo in connessione pensieri ed esperienze, presentando anche due convegni che nelle prime ore dei due pomeriggi hanno impegnato l’atrio del Forlanini. Chi avesse accettato di entrare nel gioco, superata la fase frontale, avrebbe tenuto in conto delle parole raccontate all’orecchio attraverso cuffie da audio-guida interconnesse tra loro. Ma l’impersonalità pian piano diventa racconto personale, si passa al “noi” nel lavoro di Carlo Infante che col suo Walk show ci ha accompagnato tra i luoghi dell’ospedale, le sale d’anatomia e le scale antincendio facendoci incontrare nella causalità della camminata persone e voci, infermieri e passanti, immagini raccapriccianti o muri a pezzi che raccontano a modo loro il luogo. L’esperienza performativa diventa in questo caso discreto percorso di condivisione, nel quale entrare tutti con gli stessi occhi, ascoltando contemporaneamente le stesse impressioni. In barba al disorientamento di luoghi che pure sopraggiunge, persi tra i cunicoli dello spazio di cura avremmo trovato appigli al nostro percorso nel racconto di Gino Santoro, e nelle sue esperienze di integrazione della disabilità. È lui a ricordarci come questa non sia una pratica innovativa quanto invece qualcosa da recuperare se, come nel tarantismo, l’intera comunità si faceva carico del malessere del singolo attraverso un processo collettivo.
Se volessimo prendere in prestito le parole di Jerzy Grotowski, ci troveremmo di fronte alla concezione dell’arte come veicolo, che mette in pratica e raggiunge risultati prima di tutto in campo umano e solo in secondo luogo, ma non è sempre né detto né previsto, in campo artistico. Allora bisognerebbe leggere le dimostrazioni di lavoro – come ad esempio quel Woyzeck presentato dal laboratorio teatrale integrato Piero Gabrielli da noi visto durante la prima serata di festival – non solo o non tanto alla luce di istanze artistiche, ma piuttosto di criteri sociali. Non si tratta di giustificazione pietistica quanto invece di riconoscere un lavoro collettivo, l’effettiva integrazione tra persone normodotate e altre con deficit fisici o mentali, l’efficacia dei diversi mezzi artistici adoperati a sostegno dell’espressione o dell’esplorazione del tema. Non a caso il dramma di Büchner racconta della progressiva perdita di lucidità di un soldato che finirà per accoltellare la propria compagna, in un percorso nel quale volutamente rimane sfumata la causa della follia: indotta da gelosia cieca, dalle inumane sperimentazioni del medico su di lui condotte, o da una generica ghettizzazione da parte della comunità. Musica dal vivo e scenografia di mobili accatastati aiutano lo svolgimento di un’operazione che sì, a volte risulta un po’ impacciata o sopra le righe, ma che in generale mostra di essere un gradino oltre la gioiosa amatorialità in cui si rispecchiano molte di queste realtà. Il proposito per le successive edizioni del festival potrebbe essere quello di preservare queste occasioni, non solo mostrandone il risultato, ma cercando di dare a vedere anche cosa nasconde la superficie, per restituire così una condivisione più approfondita dell’esperienza stessa.
Viviana Raciti
FESTIVAL DELLE ECCELLENZE NEL SOCIALE. LO SPETTACOLO FUORI DI SÉ
13 – 15 dicembre 2013 presso l’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma
WALK SHOW
performance a cura di Carlo Infante
WOYZECK
a cura del laboratorio teatrale integrato Piero Gabrielli