Gilles Amalvi, a proposito della coreografia Enfant di Boris Charmatz, che metteva in scena un gruppo di bambini, scriveva (traduzione mia): «Un materiale malleabile, fragile e incontrollato. Un carico di realtà che mette in crisi l’equilibrio della scena. Trasportati, fatti sdraiare, manipolati dai danzatori, i corpi dei bambini invadono lo spazio, lo allargano, lo scolpiscono. Dalle loro relazioni cresce un gioco di tensione e rilassamento che mischia forza inerziale e processo di trasformazione». È un fatto che nel teatro recente stia tornando l’impiego di corpi “anomali”, altri da quelli convenzionali”: bambini, anziani o portatori di handicap, e quelle virgolette sono necessarie per smarcarsi da ogni possibile lettura discriminatoria. Ci riferiamo qui al corpo inteso come materia mai davvero pacificata e che tende continuamente – e programmaticamente – feroci agguati al senso comune, proprio perché volta dopo volta viene messo in crisi il concetto stesso di presenza, che ogni arte dal vivo utilizza come generatore di complessità.
La potenza del corpo come azione nello spazio non solo fisico ma soprattutto cerebrale, percettivo, tende a evitare ogni stabilizzazione definitiva e ciò che, sopra ogni altra arte, la dimensione performativa dichiara è la possibilità offerta al corpo di ospitare la relazione con un uditorio, cosa che pone in essere la delimitazione dei mondi, quello condiviso e quello non condiviso. Lo spettatore è convocato in luogo medesimo eppure al contempo calciato via dall’opportunità di rapporto totalmente paritario; una reale identificazione avviene a volte con le storie, ma mai con il corpo: anche il più immaginario di tutti gli spazi di condivisione tra performer e pubblico non riuscirà a vederli sullo stesso piano carnale. Il problema non tarda a presentarsi già in tutti i dispositivi drammaturgici che giocano sulla dualità realtà/reale. Ma il vero passaggio di stato si verifica quando lo spettatore si confronta con corpi che appartengono a realtà “altre” da quella teatrale. Nel cinema essi non generano alcun tipo di conflitto. Ogni rapporto di immedesimazione che nel teatro rappresenta una spinosa questione, sul grande schermo viene invece assorbito nei presupposti del mezzo stesso: assistiamo a una vicenda cui concediamo un passaporto di realtà che fa stonare soltanto i particolari che non seguono le dinamiche della vita reale. Se allora il tempo dell’azione subisce salti avanti e indietro o un personaggio si trasforma in un altro, è quello il campanello di allarme che ci fa dubitare della natura del nostro rapporto mimetico con quello che vediamo.
Ma di per sé un bambino continua a interpretare un bambino, un disabile un disabile, un anziano un anziano. In teatro non esiste immedesimazione o – invece – distanza che possa davvero separare l’azione puntuale dal corpo che la esegue. La prossimità e la condivisione della stessa dimensione innescano nello sguardo che osserva un nuovo strumento di valutazione: se si tratta di un “corpo estraneo”, tra l’azione e l’occhio si innesta tenace quell’alterità. E allora prima che un anziano (con l’intero immaginario derivato: saggezza, memoria, vicinanza alla morte, etc.) venga visto solo come un corpo che danza; prima che un bambino cancelli la propria innocenza diventando solo un corpo che agisce; prima che il movimento di un individuo in scena vada oltre l’handicap che porta, rischia di inframezzarsi un meccanismo di adesione immediata o – fa paura dirlo – di immediato rifiuto. In Lolita Babilonia Teatri portava sul palco una bambina, facendola interagire con la consueta nuda e acida drammaturgia: il suo era un corpo ferito e che sanguinava proprio quella alterità; di segno opposto ma simile nei presupposti è stato il tentativo di Teatro Sotterraneo con BE LEGEND!, in cui le grottesche biografie dei grandi personaggi erano interpretate dai piccoli. Se non interviene a un livello davvero coraggioso alcuna messa in crisi di questa stessa pratica, vedere qualcosa di “adulto” applicato su un “non-adulto” genera sempre il rischio che quella reazione di adesione/rifiuto del pubblico sposti il fatto puramente teatrale dentro una discussione non risolta intorno ai corpi che lo realizzano.
Una strada per aggirare questo pericoloso meccanismo, che appiattisce in maniera autoritaria lo spessore dei materiali usati in scena, è che l’alterità in quanto evidenza venga vissuta fin dall’inizio come pagina bianca su cui scrivere direttamente in scena, con la potenza dei corpi. È il caso di lavori come quello di David Batignani in Assolutamente solo o di Giulio D’Anna con Parkin’son, che mettevano in scena padre e figlio e le loro somiglianze in una (pur a volte ammiccante) sfacciata nudità, sia di corpi o di identità; in Family Tree, pezzo ibrido tra teatro e performance, la malattia congenita della performer e autrice Chiara Bersani era il punto di partenza per prendere sul corpo e sull’immagine appunti di un intero vissuto; il lavoro di Alessandro Sciarroni in Your Girl puntava ad amalgamare la diversità dei corpi dentro una sottilissima e ironica azione di drammaturgia del tempo e dell’attesa; l’intero progetto di Carullo/Minasi squaderna da subito ogni possibile rischio di esposizione museale di quella fragilità, gettandosi in un complesso lavoro drammaturgico.
L’altra via spinge invece avanti l’evidenza di un lungo lavoro, mettendo direttamente in scena il processo di avvicinamento alla materia, generando proprio quel meccanismo che Amalvi ravvisava nel lavoro di Charmatz: «Un dubbio impetuoso si porta tutto via: invasione o ri-creazione? – cosa che restituisce ai bambini il proprio ruolo di sconosciuta quantità estetica e politica dentro l’equazione dello spettacolo». Allora Virgilio Sieni indaga il gesto espressivo nelle varie età dell’uomo e quel lavoro si può leggere in titoli come Cinque nonne, Giardinieri o Cerbiatti del nostro futuro; Maurizio Lupinelli (in un’intervista nel numero di Novembre 2013 dei Quaderni del Teatro di Roma, ndr) parla di «corpo dell’attore come trasfigurazione del reale» e rimanda ad Alain Platel; e si potrebbe includere il luminoso lavoro di Pina Bausch con il suo Kontakthof per anziani.
Un nodo forse sta allora nella consegna allo spettatore. Alla sua lettura dell’opera, che compone la chiusura del cerchio, occorre sempre offrire la carica poetica di ogni elemento scenico in una forma definita ma non definitiva, fornire una materia problematica e insieme la spinta a problematizzarla ulteriormente, dentro tutti i possibili piani che ne mettano in discussione la presenza stessa nella somma delle attenzioni.
Sergio Lo Gatto
si ringrazia per la consulenza G. C. C.
Questo articolo è apparso sul numero di Novembre/2013 dei Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.
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