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Romeo Castellucci. L’artista e il buco nero

The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon
The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Il teatro, in ogni sua forma e secondo lo spirito di ogni tempo, non può sottrarsi alla misura del mondo. È degli uomini la realtà infinite volte celata e manifesta, è l’accesso della partecipazione e il brivido della sottrazione, l’aria e il buco sottile attraverso cui arriva a trasformarsi respiro. La sua forma è un quadro, la missione è presenza, il fine è l’assoluto. Teatro è l’atto di coscienza umana di fronte all’imponderabile processione di martirii in cui svelle l’umanità, il silenzio tenace, solenne, che succede al dubbio, la pausa rallentata ch’è nucleo primario di una tentata risposta. In quello spazio a cavallo fra gli estremi esistenziali, in coraggioso equilibrio fra misticismo e iconoclastia risiede la creazione di Romeo Castellucci, compositore teatrale co-fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio nel 1981 a Cesena, sua città natale, e oggi protagonista assoluto della scena europea.

The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon
The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

The Four Seasons Restaurant, il suo spettacolo. Il ristorante delle quattro stagioni. È il nome di un locale che esiste davvero sulla 54ª strada di New York, ma insieme è nome di un’esistenza scandita dalla lotta perenne tra la linea dell’evoluzione cosmica e i segmenti dell’uomo, l’infinito nei pensieri di chi, pur se ha concepito per la propria specie l’escamotage di contenere moltitudini, è in sé stesso concluso. The Four Seasons Restaurant è l’ultimo capitolo – terzo – di un ciclo immaginato oltre la suggestione derivata dalla lettura di Nathaniel Hawthorne, più ancora dal suo denso racconto Il velo nero del pastore che ha suggerito a Castellucci il primo Sul concetto di volto nel figlio di Dio e il successivo omonimo spettacolo. A stimolare l’artista è il perimetro del possibile, lo slancio umano che sfida e sfidando misura la distanza fra sé e l’universo, imponendo la sua strenua resistenza. Ma più importante ancora è che tale ardimento ha una matrice comune nell’immagine: il reverendo Hooper che cela il volto con un velo nero nel racconto di Hawthorne, nella privazione della raffigurazione nasconde il segreto dei propri lineamenti e spinge a immaginarli, ossia desiderarli; dall’altro lato è Mark Rothko, artista cui il ristorante del titolo nel 1958 commissionò una serie di opere che, una volta realizzate, egli decise di non esporre e tenere nell’oscurità (oggi sono conservate alla Modern Tate di Londra). Rothko, non a caso artista suicida, compie così un atto di sottrazione al cosmo, nei suoi quadri compaiono elementi che scompaiono alla visione, egli preserva dal guardare e preserva l’immagine stessa dallo svelamento, ma come il volto del pastore: dove si attesta il segreto, si espande il mito.

The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d'Avignon
The Four Seasons Restaurant © Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon

Dal rumore assordante al silenzio sommo, dal buio di un collasso celeste si allarga un’illuminazione che si attendeva esplosiva e invece si affaccia con tenue intromissione quasi estatica, priva di spigoli, celando in sé l’appartenenza a ciò che introdurrà; dieci ragazze in abiti collegiali raggiungeranno la scena di un bianco uniforme e commovente, venato soltanto da una spalliera da palestra sulla parete di fondo. Le ragazze, fin dalla prima scena, estremizzeranno la loro privazione, la loro clausura: forbici e sangue, cadranno sul terreno. Poi sarà Friedrich Hölderlin, i versi de La morte di Empedocle – il filosofo e poeta si tolse la vita gettandosi nell’Etna –, in una recitazione ritmata nei movimenti e nelle cadenze tonali, con alterne concessioni alla voce registrata ad instaurare relazione con la scrittura fisica, che compone una partitura asciutta e stringe le redini dell’attenzione. Le dieci attrici compiono lo sforzo di farsi immagine vibrante, animare una visione e diventare un complesso scultoreo dal vivo, cuore pulsante da colpire a freddo con lo sparo di una pistola. Attorno a loro il dominio di immagini forti, viscerali come il corpo muto di un cavallo ucciso e amputato degli arti, la tempesta dei sentimenti e la confusione della percezione cosmica, le relega a farsi adoranti e nude ancelle di un volto di donna che le sovrasta, il loro nume immobile e – come i quadri di Rothko – per questo commovente, la loro recondita essenza.

Tutto ha origine da un buco nero. L’esistenza e questo spettacolo. Ma in quell’origine è anche la fine. Nella linea evolutiva dell’infinito-finito uomo, le escrescenze di coscienza sono i parametri dell’arte. Proprio a questo Castellucci si rivolge, la condizione di solitudine dell’artista costretto a farsi metro umano al cospetto universale, sonda essenziale e strumento di rivelazione, come in Rothko e Hawthorne, l’Empedocle di Hölderlin sottrae sottraendo sé stesso.
Non si è esenti da una creazione di Romeo Castellucci, non ci si può tirare indietro. Il suo tocco teso e netto, velato come il volto del pastore, verrà via con chi vi assiste fino alle sue case, stanze segrete e silenzi sovrumani, e per tanto umani. Coglie una sensazione di stordimento all’uscita, ci si domanda cosa è stato, cosa è ora. Abbiamo assistito a una caduta, niente paura, è ciò che accade attorno e dentro ognuno. L’artista è colui che conosce a perfezione la vetta e la profondità, non ha fatto altro che indagare la traiettoria del corpo, la dirittura della morte. L’arte e la balistica, mai così vicine.

Simone Nebbia

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THE FOUR SEASONS RESTAURANT
Regia, Scene e Costumi Romeo Castellucci
Musiche Scott Gibbons
Interpreti Chiara Causa, Silvia Costa, Laura Dondoli, Irene Petris
Assistente alla regia Silvia Costa
Collaborazione alla drammaturgia Piersandra Di Matteo
Direzione alla realizzazione delle scene Massimiliano Peyrone
Tecnici di palco Michele Loguercio, Filippo Mancini, Lorenzo Martinelli
Tecnico luci Fabio Berselli
Tecnico del suono Matteo Braglia
Coordinamento tecnico Luciano Trebbi
Realizzazione dei costumi Rachels’ Seamstress Services
Accessori Carmen Castellucci
Produzione esecutiva Socìetas Raffaello Sanzio
In coproduzione con Theater der Welt 2010, Théâtre National de Bretagne / Rennes, deSingel international arts campus / Anversa, The National Theatre / Oslo Norvegia, Barbican London and SPILL Festival of Performance, Chekhov International Theatre Festival / Mosca, Holland Festival / Amsterdam, Athens Festival, GREC 2011 Festival de Barcellona, Festival d’Avignon International Theatre Festival DIALOG Wroclaw / Polonia, BITEF (Belgrade International Theatre Festival), Foreign Affairs I Berliner Festspiele 2011, Théâtre de la Ville–Paris, Romaeuropa Festival 2011, Theatre festival SPIELART München (Spielmotor München e.V.), Le Maillon, Théâtre de Strasbourg / Scène Européenne, TAP Théâtre Auditorium de Poitiers – Scène Nationale, Peak Performances @ Montclair State-USA
Foto © Sonja Žugic
Una corealizzazione Romaeuropa Festival 2013 e Teatro di Roma

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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