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L’officina di Carmelo Rifici. Un eccesso di cinema

L'officina
Foto di MoniQue

L’officina – Storia di una famiglia è uno spettacolo scritto da Angela Demattè per la regia di Carmelo Rifici, che racconta in 85 anni di storia (1926-2011) suddivisi in tre densi capitoli (premodernità, modernità, postmodernità) la nascita, lo sviluppo e il fallimento di una piccola impresa famigliare di artigiani trentini. L’autrice attinge al passato della propria stessa famiglia, traendone una vicenda particolare attraverso cui comunica qualcosa di universale: che da sempre il lavoro aliena l’uomo e inquina le sue relazioni profonde, senza che le nuove generazioni riescano a mutare la drammatica situazione ereditata dalle precedenti. Tutto ciò che avviene sulla scena e che viene detto dai personaggi è messo al servizio di questa idea critica, ricca di spunti di riflessione, ma che appunto per questo lascia un po’ perplessi sul piano squisitamente teatrale. Il lavoro risulta infatti essere più vicino a un documentario recitato da buoni interpreti che a un’opera di poesia drammatica.

La regia appare di conseguenza molto cinematografica. Non a caso, Rifici impiega massicciamente proiezioni audiovisive di foto, lettere, scritte che segnalano il passaggio da un capitolo all’altro, etc., e scrive nelle sue note pubbliche di voler «ricreare sul palcoscenico un “film a puntate”». A tale fine, egli costruisce anche alcuni paralleli visivi – si potrebbe dire anche “fotografici” – tra i capitoli dell’opera. Questi paralleli vengono ottenuti calando i sette attori in situazioni drammatiche ricorrenti (scene di pranzi in cui si manifestano rancori repressi, dialoghi in cui le mogli si lamentano del marito, etc.), ma soprattutto facendo recitare loro la stessa tipologia di personaggio, con l’indicazione di ripetere i medesimi gesti, comportamenti o reazioni. Accade, ad esempio, che Andrea Castelli, interprete del nonno detentore dell’azienda di famiglia, si esprima in ciascun capitolo in tono burberamente scherzoso, o si appoggi sul tavolo con le braccia conserte nei momenti di dolore. Ciò va a favore della tesi che in ogni generazione si ripetano gli identici errori e che il lavoro resti qualcosa che avvinghia gli uomini a sé, estraniandoli dal proprio “io” e dal “tu” costituito dai familiari.

L'officina
Foto di MoniQue

C’è poi l’eccessiva carica meta-linguistica. Verso la fine del primo capitolo, momento in cui la vicenda è ancora ambientata in una casa trentina degli anni Quaranta e gli attori indossano i costumi dell’epoca, irrompe di colpo sulla scena il personaggio di Sonia, la figlia più piccola (nonché alter ego della stessa Dematté) che vive nell’epoca post-moderna del terzo capitolo. Da lei gli spettatori apprendono che quanto si osserva sulla scena è la rappresentazione immaginaria di un film, che sta scrivendo al computer per indagare il «lavoro quotidiano» e denunciare l’alienazione in cui esso tutt’oggi ci intrappola. I personaggi calati si scoprono all’improvviso, così, in parte attori che provano la partitura, in parte fantasmi della memoria della ragazza, che cerca di esorcizzare comandandoli di mettersi al servizio di questo suo nobile obiettivo. La trovata fornisce un preciso filo conduttore tra i capitoli, che altrimenti si sarebbero succeduti in maniera meno fluida, ma riesce molto poco efficace in termini drammatici, poiché complica la vicenda (che poteva benissimo vivere senza questa struttura meta-teatrale) senza darne degli squarci illuminanti.

In sostanza, L’officina risulta un buon film mancato, perché ha degli ottimi contenuti e sfrutta delle strategie comunicative che si prestano molto bene al cinema. Per questo motivo, esso non poteva però non riuscire che lento, farraginoso e goffo a teatro, dove non si lavora su parole e immagini dirette, ma su parole e immagini che alludono a qualcos’altro, solitamente afferrabile anche senza ripercorrere 85 anni di storia dell’uomo. Il teatro riesce, infatti, a essere tanto più universale quanto più si concentra su pochi momenti intensi di una vita, attraverso la rappresentazione di alcuni suoi tratti esemplari.

Enrico Piergiacomi

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Famiglia e lavoro: un’epopea lunga 80 anni
di Angela Demattè
regia Carmelo Rifici
scene Guido Buganza
costumi Margherita Baldoni
luci Giovancosimo De Vittorio
con Andrea Castelli, Olga Rossi, Giuliano Comin, Angela Demattè, Sandra Mangin, Christian Mariotti La Rosa, Nicolò Todeschini

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