L’alternanza di oscurità e luce fra le schiere di pochi colori primari: un faro a tono naturale, il rosso avvolgente da camera oscura, un grigio opaco o un percorso di lucciole di stelle incise al fondale scarno. Poi un tavolino chiaro in legno, piccoli petardi, un pistola a canna corta e un uomo solo, camicia bianca e bretelle nere. Questo basta a Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij, in scena al Teatro Argot Studio fino al primo dicembre, per confermare a vent’anni dal debutto il tributo di Andrea Renzi – ormai storico attore di Teatri Uniti – al poeta russo.
È un monologo che mutua molti dei pezzi presenti nel collage proposto da La nuvola in calzoni, poema del periodo pre-rivoluzionario composto tra il 1914 e il 1915 con una straordinaria potenza lirica e un uso quasi cosmografico dei versi sulla percezione, incredibile se parametrato sui soli ventuno anni dell’autore all’epoca della stesura. L’avvicendarsi dei componimenti è scandito in scena dallo sparo dei colpi di pistola cui segue un attimo di buio. Lo spettacolo, a metà tra lettura interpretativa a memoria e recitazione poetica, evita fortunatamente il rischio bifronte (pur facile in casi del genere) d’apparire poco più che un reading o, al contrario, di avvilire le liriche in una qualche inopportunità teatrale. L’attore, qui demandato a rappresentare la personalità del poeta, cerca l’uomo, sembra volerlo andare a stanare dietro le forme di parole per restituire di queste il verbo rianimato fra i canali linfatici del corpo-voce, collocato nello spazio e nel tempo della performance. Il modo in cui i toni, i ritmi e l’anatomia accompagnano la “declamazione” è riformulato di volta in volta: velocità rampicante e monodia di modulazione, presenza iniettata agli occhi veementi e fissità totale di vuoto alle pupille, cambi di posizione e collocazione sul palco, completa rigidità o flemma atterrita. E ad ogni cambio, dopo ogni momento un colpo di rivoltella a ricordare il capitolo ultimo della sorte autoinflittasi da Majakovskij, suicidio prevedibile e sorprendente al contempo, cui mancherà lo sparo definitivo al cuore sulla scena, sostituito dal campeggiare di un bengala in conclusione. L’intento è chiaro, come il disegno e l’idea drammatica, rendere l’incedere inesorabile e leggendario del sacrificio di sé stessi, consegnare alla fruizione organica il dominio imperituro di un intelletto letterario ineguagliabile, un alchimista di misteri e rivoluzioni, un miscelatore di amore e logiche propagandistiche.
Il protagonista pare consapevole nella volontà di arruolarsi all’esercito di anime che abitarono l’autore, si offre pronto al conflitto di bellezza incendiaria e violenta delle parole, modula l’energia comprimendola nei pugni stretti fino a sbiancare i bordi dei lembi cutanei, rilasciandola nel moto e nelle azioni coi rivoli di sudore riflessi sul volto dalle tempie giù per la nuca. Non manca l’esperienza adatta alla gestione delle misure – cosa che si può dire anche della regia – , certo sostenuta dalla foggia unica dei versi che soli basterebbero a far la differenza ovunque, ma che per la stessa ragione rischierebbero anche per mani meno discrete di diventare gabbia di un fallimento privo d’assoluzione. Alla pirotecnica (figurata e reale, con l’uso di piccoli ordigni) si lascia in un certo senso il compito di accompagnare il percorso rappresentativo perché in fondo è fuor di dubbio che se c’è elemento accostabile a Vladimir Majakovskij, questo è il fuoco, entità provvidenziale e micidiale insieme, illuminazione dell’ingegno e consumo rapido della sua sostenibilità nel mondo, calore della passione e rogo mortale di un pathos estremo al punto da divenire fardello fra le banalità del creato. «”A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio” ma uno come me dove potrà mai ficcarsi? Dove mi si è apprestata una tana? (… ) in quale notte delirante, malaticcia, da quali ‘golia’ fui concepito, così grande e così inutile?”». Come ogni eccellenza visse fra gli estremi, passò per il dolore piombando nella straordinarietà, cercò la meraviglia per scoprire la mestizia, fino a concedersi alla fiamma dell’eternità con l’arte, nel perpetuo diniego delle mediazioni. Bruciò in fretta è vero, ma continuerà a divampare senza sosta.
Marianna Masselli
Visto a Roma in novembre 2013
in scena fino al 1 dicembre 2013
Teatro Argot Studio [cartellone stagione “Prove di volo”]
Roma
FUOCHI A MARE PER MAJAKOVSKIJ
di Andrea Renzi
con Andrea Renzi
luci Pasquale Mari
suono Daghi Rondanini
direzione tecnica Lello Becchimanzi
una produzione Teatri Uniti
Una recensione ampollosa tesa più al compiacimento della scrittura che a farci capire se lo spettacolo è piaciuto o no a chi scrive…poco ho capito dello spettacolo e molto di quanto ha studiato Marianna Masselli. Legga De Monticelli.
a me sembra marianna scriva benissimo, sia chiara e scorrevole, colta e profonda, originale, personale, creativa, sappia suscitare interesse per lo spettacolo senza svelare troppo. so che dopo lo spettacolo avrò voglia di rileggere la recensione. perchè lo spettacolo non si esaurisce nella recensione. perchè la recensione non si esaurisce nello spettacolo. si abbracciano.
Gentilissimo Illettore, se la mia scrittura le pare compiaciuta o ampollosa mi spiace, le assicuro che non è il suo intento e quindi nemmeno il mio. Che ci creda o no è frutto di flusso naturale derivato dalla visione, ma questo non implica debba incontrare tutti. Mi permetto di conservare per me stessa, De Monticelli o non De Monticelli, la discrezione di ritenere che il mio compito nello scrivere una recensione non sia quello di emettere nettamente giudizi di valore che spieghino tout court se lo spettacolo mi è piaciuto o meno: se facessi questo avrei la sensazione, e spero anche lei, di non offrire altro che uno spaccato di gusto personale, semplice e pressochè inutile alla mia funzione, agli artisti in questione e prima di tutto ai lettori che priverei del diritto di curiosità e opinione a prescindere. Mi sembra si evinca abbastanza chiaramente la mia idea sullo spettacolo e se la performance mi avesse disturbata, mi creda, se ne sarebbe accorto. Ancora non credo nemmeno che il mio ruolo sia raccontare a menadito quello che succede in scena: per questo ci sono le sinossi, i copioni, i quaderni e le note di regia. Faccio il mio mestiere in coscienza e per necessità di passione, è normale non si possa necessariamente e ogni volta piacere, tuttavia se già evince che io abbia studiato è un passo avanti, vuol dire che il lavoro si fonda quantomeno su delle basi che sono un buon presupposto per continuare a migliorare. Spero ci troveremo magari concordi in altre circostanze nel rapporto scrittura-lettura e se così non sarà ad ognuno resterà la propria opinione. A Giulio, grazie davvero e davvero di cuore.