Le prima aria rigida, fiati autunnali a spirare fra le vie del centro col calore delle luci ad avvolgere i palazzi, le rovine, i volti che scorrono accelerati dal freddo fra la malinconia e la quiete incombente, desiderabile, di una giornata che si avvia a finire. E poi nella bellezza pura del seno urbano glorificato dalla sera un parterre, una sala di teatro e un debutto: trionfo di figure disparate e numerose, normalità e fisionomie di familiarità televisiva, trasandatezza di stile intellettuale, mise di nero integrale chicchissimo e le solite sfilate fuori misura che dall’inseguimento dell’eleganza capitombolano nel cattivo gusto. Insomma una prima in piena regola quella de Il soccombente, che vede sul palco del Piccolo Eliseo fino a dicembre Roberto Herlitzka con Marina Sorrenti, diretti da Nadia Baldi.
Lo spettacolo è riduzione dell’omonimo romanzo di Thomas Bernhard (in Italia da Adelphi, 1999) adattato da Ruggero Cappuccio. Il testo, scritto nella prima metà degli anni ottanta dall’autore austriaco, è parte di una trilogia su musica, teatro e figurativo cui appartengono anche A colpi d’ascia e Antichi maestri e che indaga la relazione, i crucci dell’arte in riferimento alle tre differenti declinazioni.
La riflessione, categorica e pungente come sempre in Bernhard, si trasforma in racconto a flusso continuo, condotto da un’unica voce che ne segue la versificazione come fosse un fiume mnemonico mono-maniacale e passa qui per la vicenda immaginaria di due amici, studenti di conservatorio. Durante il corso tenuto da Vladimir Horowitz a Salisburgo, l’io narrante e Wertheimer conoscono Glenn Gould – pianista e compositore tra i più straordinari del Novecento – con cui intrattengono un rapporto che nel confronto segnerà la debacle delle loro aspirazioni musicali nonché il tracollo delle tensioni esistenziali. Le Variazioni Goldberg di Bach diventano il filtro attraverso cui estrinsecare il nodo delle istanze tematiche: dopo aver sentito Gould suonare, entrambi abbandoneranno la carriera musicale e sprofonderanno in una coltre di frustrazione che si tradurrà per il narratore nell’asfissia resistente e petulante dell’ossessione e per Wertheimer, il “soccombente” appunto, nella debolezza della resa al suicidio.
Questa versione per la scena conserva dell’originale la struttura e le modalità di restituzione, demandando a Herlitzka il compito di portare i versi alla performance, di strapparli alla pagina per restituirli alla parola, di modo che si plasmi in corpo e suono l’esposizione. L’attore, qui dunque anche prosatore, tiene le fila dei ricordi, incanala le circostanze sulla via dell’interpretazione con una precisione senza sbavature, nella totale opportunità dei toni e del ritmo, con la completa padronanza dello spirito e il necessario controllo della misura drammatica così che la maniera appaia quasi esemplare e, nel senso più buono e auspicabile del termine, accademica. In realtà sarebbe stata una sorpresa il contrario, in un caso simile. La figura del protagonista tuttavia non è solitaria e trova contrappunto nella presenza di una donna, fronda di ricci biondi in apertura su una sedia verde da barbiere orientata al fondo, le cui parole e la cui condotta si congiungono come incisi autistici alla partitura dell’allestimento. I profili si innestano alle pareti di bachelite che li circondano e si trasformano all’occorrenza in proiettori per ritratti, incidono col gesso bianco gli emblemi grafici dell’afflizione del pensiero, interagiscono in un limbo relazionale dove il dia-logo riesce come per assurdo ad annullare del proprio etimo la natura duale.
Le intenzioni registiche risultano chiare soprattutto per quanto concerne l’impiego delle luci, dei supporti mediatici (musica e proiezioni); stessa cosa si può dire della concezione dello spazio, del suo utilizzo come dimensione rappresentativa da attraversare o meglio da sfruttare per costruire i momenti in funzione del senso. Il tocco direttivo non appare memorabile, non sconvolge è vero, ma resta discreto forse deliberatamente e lascia anche ben presente che si avvale, in una forma a metà tra lettura e pièce, di una recitazione con un nome come garanzia inglobante la percezione, croce o delizia che sia l’oscuramento del resto come valore aggiunto o la mancanza di piglio a segnare una differenza.
«Il linguaggio non serve quando si tratta di dire la verità, di comunicare qualcosa, il linguaggio permette a chi scrive soltanto l’approssimazione, sempre e soltanto la disperata e quindi anche dubbia approssimazione all’oggetto, il linguaggio non riproduce che un’autenticità contraffatta, un quadro spaventosamente deformato, sebbene chi scrive si dia un gran da fare, le parole calpestano e deformano tutto, e sulla carta trasformano la verità assoluta in menzogna». Così Thomas Bernhard in un suo scritto, e così noi sempre con il mestiere e la sensazione.
Marianna Masselli
Fino al 2 dicembre 2013 al teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi di Roma
IL SOCCOMBENTE – OVVERO IL MISTERO DI GLENN GOULD
di Thomas Bernhard
traduzione Renata Colorni
riduzione Ruggero Cappuccio
con Roberto Herlitzka, Marina Sorrenti
regia Nadia Baldi
musiche originali Marco Betta
ambientazioni videografiche Davide Scognamiglio
progetto luci e costumi Nadia Baldi
assistente alla regia Davide Paciolla
luci Giuseppe Falcone
fonica Valeria Rodelli