Circa venti elementi sul palco del Teatro Argentina compongono la compagnia allargata con cui Gabriele Lavia affronta I pilastri della società, testo di Ibsen tra i meno frequentati nei nostri teatri, online si trova solo una traccia della regia di Orazio Costa del 1951 con un cast che riporta nomi come quelli di Buazzelli, Proclemer, Carraro, Manfredi. Eppure il testo è di una forza dirompente, una sciabolata all’ipocrisia e al perbenismo moralista della Norvegia del secondo Ottocento e un monito per l’Europa intera.
A Lavia va dunque il merito di questa riscoperta ibseniana, nonché l’intuizione di vedere lì su, tra i fiordi, uno specchio vivido e per nulla deformato della nostra società. Su questo il direttore (a fine mandato) dello Stabile romano si gioca tutto, al punto di non aver bisogno di attualizzare il testo, di “sperimentare” scenografie o costumi a noi coevi, non cerca artificiali attualizzazioni – come fece per I masnadieri di Schiller costringendo quei poveri giovani rivoltosi nei panni di teppisti anni ’80. Lavia è consapevole che la forza del dramma scritto nel 1877 è quella di insinuarsi tra le incrinature provocate dai mutamenti tellurici della storia: trent’anni prima della stesura de I pilastri della società viene scritto il Manifesto del Partito Comunista, erano anni di rivoluzioni e conquiste, del ’54 la prima ferrovia che in 40 chilometri collegava Oslo a Eidsvoll.
Proprio la ferrovia è in qualche modo il correlativo oggettivo di quei mutamenti, della fragorosa corsa con cui la modernità si creava spazio tra natura disboscando aree verdi, rinunciando a principi morali e spirituali; e allora quei binari appaiono chiaramente come una cerniera d’acciaio che salda il progresso al potere del singolo.
«[…] l’idea è quella di mettere il passato davanti a noi, davanti al pubblico, come uno specchio […]» rivela Lavia in un articolo sul Messaggero di oggi (21 novembre), insomma c’è la volontà di fare del teatro borghese un teatro civile. Questo messaggio il Teatro di Roma ha cercato di farlo passare quasi ossessivamente (con successo, gliene diamo atto), basti pensare al trailer promozionale fatto girare sul web, nel quale il protagonista della vicenda viene accostato a personaggi quali Dell’Utri, Scilipoti, De Gregorio, Fiorito. Il Console Bernick nasconde dietro la faccia d’angelo e la reputazione virginale una macchia che, come sempre accade in Ibsen, dal passato tornerà a flagellarlo: il buon nome del capitano d’impresa che ha donato la propria vita alla società rischia di essere macchiato dalla peggiore infamia, la menzogna. Ma Bernick è disposto a tutto, anche a passare sopra la vita umana pur di salvaguardare il progresso della società in cui vive; che questo coincida con i propri interessi personali, con il consolidamento del potere è solo una coincidenza, o meglio una concausa che non fa altro se non serrare maggiormente i ranghi attorno al progetto. Lo circondano una serie di inetti, tra faccendieri, leccapiedi e donne che fintamente aspirano alla salvezza dello spirito. Come può il dramma di Ibsen non essere lo specchio del nostro tempo? Dovremmo però chiederci cosa aggiunge la grande produzione voluta dal Teatro di Roma, dallo Stabile di Torino e dalla Pergola di Firenze. Probabilmente nulla, se non una illustrazione visiva di prestigio – Lavia ha affermato che è stata riadattata la scena di Tutto per bene, della passata stagione. È nella mancanza di questo scarto in più che pecca il lavoro del regista e attore milanese. Possibile che il suo teatro, così potente nei mezzi e negli intenti debba ogni volta riproporsi come un museo di cliché e vizi recitativi novecenteschi? La drammaturgia di Ibsen è una lama, che bisogno c’è di caricare i personaggi fino a trasformarli in macchiette, si veda il professor Rørlund interpretato da un Andrea Macaluso continuamente sopra le righe, come se ci fosse bisogno ancora di inquadrare l’ensemble in antiquate categorie, come quella del caratterista appunto. E poi vi è la sua di recitazione, quella del maestro, che funziona ancora, certo, è come una berlina d’epoca di cui si conosce il rumore del motore appena si avvia, dal fraseggio musicale riconoscibilissimo e in questo caso senza eccessi o piagnistei di troppo. Poi c’è l’affettazione della moglie del protagonista, Betty Bernick, a cui presta voce e corpo Giorgia Salari o le risate sguaiate di Federica Di Martino nei panni di Lona; lei è il passato che ritorna a fare luce sulla menzogna, a tratti riesce nell’intento ma per la maggior parte del tempo esagera nel giocare la parte della donna emancipata tornata dall’America, l’opposizione con la corte di sante di cui si circonda Bernick è estrema e scolastica.
Non convince infatti Lavia quando afferma la propria idea di interazione col passato «[…] reso sia nell’impianto scenico, sia nella recitazione, affidandosi saldamente a una tradizione rigorosa e ad una cura degli elementi originari del fare teatro». Ci sono anche le luci splendide di Giovanni Santolamazza, che ci regalano cambi di eccezionale enfasi, controluci romantici e albe da cartolina. Ma tutto, dalla recitazione alla scenografia – con la collezione di divanetti e poltrone rosso pompeiano, gli alti stucchi, il soggiorno in vimini rialzato da alcune scale sullo sfondo, il giardino nel proscenio sul quale si alza e si abbassa la grande parete a vetrate – più che appartenere a quegli “elementi originari del fare teatro” sembra scimmiottare la Belle Époque della scena italiana di una volta.
Andrea Pocosgnich
twitter @andreapox
in scena fino al 22 dicembre 2013
Teatro Argentina [cartellone]
Roma
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Teatro Roma – Spettacoli in Agenda
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di Henrik Ibsen
regia Gabriele Lavia
traduzione Franco Perrelli
con Gabriele Lavia, Massimiliano Aceti, Alessandro Baldinotti, Rosy Bonfiglio, Michele Demaria, Federica Di Martino, Camilla Semino Favro, Giulia Gallone, Viola Graziosi, Ludovica Apollonj Ghetti, Giovanna Guida, Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Graziano Piazza, Mario Pietramala, Clelia Piscitello, Giorgia Salari, Carlo Sciaccaluga
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Giovanni Santolamazza
orari spettacolo
ore 21.00
giovedì e domenica ore 17.00
sabato ore 19.00
lunedì riposo
durata
I tempo (1h 30’)
intervallo (20′)
II tempo (1h 30’)
coproduzione Teatro di Roma, Fondazione Teatro della Pergola e Fondazione Teatro Stabile di Torino
Ottima recensione, mi trovo sostanzialmente d’accordo, aggiungo soltanto che oltre “ai cliché e vizi recitativi novecenteschi” c’è anche l’alterazione del testo in alcune parti, per esempio nel finale http://marcopizziparalipomena.blogspot.it/2013/11/lavia-vs-ibsen-i-pilastri-della-societa.html
Concordo con Marco Pizzi: il monologo finale di Lavia fuoriscena è del tutto superfluo e inutile. Il riferimento a personaggi fin troppo noti della nostri giorni è troppo insistito, anzi addirittura voluto. Il pubblico aveva già fatto i propri ragionamenti e trovato nel testo i facili parallelismi con la corruzione dei “pilastri” attuali, e non c’era bisogno di allungare, e in fin dei conti indebolire, le riflessioni nate spontaneamente da un testo letterario bellissimo. Peccato! strafare è sempre sbagliato!
Mi stupisce lo stupore di Andrea Pocosgnich: Lavia ha esplicitamente compiuto un’operazione “vecchia” (dichiarando addirittura in un’intervista che avrebbe considerato un complimento l’attribuzione di questo aggettivo al suo allestimento) ma rigorosa, non innovativa (ben distante da “Misura per misura” di qualche anno fa, per dirne una) ma quasi del tutto fedele al testo (sotto-finale a parte, avrei evitato di gigioneggiare al proscenio) e con tutte le caratteristiche del “buon” vecchio teatro di una volta, per alcuni polverosa ma di rigore stilistico quasi impeccabile. Lavia è onesto, rigoroso, preciso, sia nella veste di regista che in quella di attore, e non scimmiotta la Belle Epoque: può non piacere ma credo abbia, semmai, la sola colpa di ripetere un po’ troppo di frequente se stesso…
Lavia è sempre bravissimo,certo forse il monologo finale troppo lungo ………..