Sarebbe interessante capire se nella società complessa e multiforme di oggi il teatro possa ancora avere una funzione detonante attraverso il genere comico. Naturalmente possiamo affermare che, dato un certo avanzamento linguistico, i generi (quelli fondamentali, commedia e tragedia) non esistano più, ma a ben guardare la scena contemporanea non è poi così vero. Di certo vi è il rifiuto della commedia con la propria struttura drammaturgica dialogica e quell’insieme di relazioni tra personaggi ed eventi regolate da principi di causa ed effetto. Forse troppo rapidamente ci siamo detti, a voce neanche così flebile, che il genere commedia era ormai morto, lasciato a consumarsi in un angolo per manifesta incapacità di raccontare il presente, di restituirci la complessità del reale. Oppure anche quando non lo credevamo già morto ci siamo affrettati a chiedergli travestimenti e mutazioni di ogni sorta; eccolo nascosto nell’immobilità del teatro dell’assurdo, oppure imbellettato e travestito da pièce ironico-concettuale (se non addirittura meta-teatrale), in fine lo ritroviamo affidato sempre di più all’istrionismo del singolo, al mattatore, banale e televisivo o intellettuale e chic.
Di sicuro è sempre più difficile trovare un autore che punti sul genere in modo, se non nuovo, almeno non banale. L’intera riflessione è scaturita dopo la visione di Farà giorno, spettacolo scritto da Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi, in scena fino al 1° dicembre al Teatro Sala Umberto di Roma con la regia di Piero Maccarinelli. Dai presupposti l’impianto poteva apparire non scevro di manicheismo: vi si racconta la storia commovente, di amicizia e affetto tra un giovane fascista e un vecchio comunista dei giorni nostri. Il primo è costretto a fare da infermiere al secondo, questi invece, giorno dopo giorno, si prende l’onere di migliorare il ragazzo; vi basti, prima di andarlo a vedere. Anche perché quello che colpirà la vostra attenzione non sarà l’intreccio – neanche quando influenzato dal ritorno del passato (seguendo uno schema quasi ibseniano) rappresentato da una figlia che rivede il padre dopo trent’anni – ma l’umanità di cui sono impregnati i personaggi. Gianrico Tedeschi, che porta il ruolo sul palmo di una mano, è Renato, un ex tipografo, ormai solo; è stato un partigiano e più volte ha visto in faccia la morte e il fallimento dei propri ideali; Alberto Onofrietti è Manuel, all’inizio forse troppo brusco e alla ricerca di un’immediata caratterizzazione violenta, ma nel prosieguo prende bene le misure tratteggiando con simpatia e profondità quel ragazzotto di borgata che ha riempito un vuoto culturale con un nostalgico estremismo politico, un personaggio che sarebbe piaciuto a Pasolini. I due si combattono e poi si amano, Renato cerca di riempire il vuoto di Manuel non con la dottrina, ma con la vicinanza e la narrativa, lui si legge i Quaderni dal carcere di Gramsci, ma al ragazzo regala i Tre moschettieri e Guerra e Pace. La comicità nasce dall’ironia alta di Renato, ma anche dai modi rudi di Manuel, dall’incontro dei due mondi scaturisce una linea comica immediata e funzionale; quando Manuel viene a sapere quanto dovrà assistere l’anziano afferma: «Sessanta giorni? Ne facevo de meno con la condizionale».
In verità forse basterebbe questo, invece a complicare la situazione ci pensa il personaggio della figlia, ex-brigatista, recitato con punte di eccessiva enfasi e affettazione da Marianella Laszlo. Da qui, in parte, la pièce prende un’altra strada, i toni si fanno più tristi e malinconici. E se non fosse per un finale forse troppo ammiccante e per l’uso eccessivo del buio che insieme alla musica (completamente fuori tono e più adatta a uno spettacolo pensato per sketch) rappresenta l’unica punteggiatura con cui dividere i quadri nella scansione temporale, vi parlerei di uno spettacolo imperdibile. Certo forse non lo è in assoluto, ma rappresenta probabilmente un esempio di come il teatro di parola, costituito da relazioni vere tra i protagonisti, possa tentare di raccogliere un certo dibattito sul nostro tempo, anche quando lo spunto e il motore sono innescati dalla comicità.
Andrea Pocosgnich
twitter @andreapox
in scena fino al 1 dicembre 2013
Teatro Sala Umberto [cartellone]
Roma
FARA’ GIORNO
di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi
con Gianrico Tedeschi. Marinella Laszlo, e Alberto Onofrietti
immagini Giacomo Costa
scene e costumi Paola Comencini
musiche Antonio Di Pofi
regia
Piero Maccarinelli
produzione Artisti Riuniti
La commedia ultimamente ha subito duri colpi ed è un genere che troppo spesso viene relegato a un ruolo secondario. La tradizione però parla chiaro ed insieme ad essa abbiamo le testimonianze dei grandi maestri che hanno saputo portare in alto il nome Commedia.(vd. De Filippo, Monicelli, Risi) Bisognerebbe recuperare quella altissima capacità di far riflettere col sorriso sulle sventure e i gli umani vizi. Se una compagnia teatrale mette in prova la sua commedia con la presenza dell’autore e del regista, e la modifica insieme agli attori per renderla sempre più viva, questa non crediamo possa essere ignorata o non considerata come drammaturgia contemporanea. C’è bisogno di commedia e di qualcuno che se ne occupi prendendo la questione molto seriamente. Come diceva Alberto Sordi ne “il marchese del Grillo” “quando si scherza bisogna esse’ seri”…
Credo che la risposta al “bisogno” (o meno) oggi giorno del genere commedia sia insita nella critica stessa dello spettacolo “Farà giorno”, cui anch’io ho avuto il piacere di assistere, ed è riassumibile in una parola: umanità. L’uomo è comico per natura, spesso anche nei momenti di maggiore drammaticità, ed è proprio per questa naturale propensione al sorriso (Forse sarebbe più giusto parlare di bisogno primario del sorriso) che la commedia riesce a destare l’attenzione dello spettatore, ponendolo in una posizione di ascolto rispetto a ciò che viene rappresentato. Ed è allora, come hanno fatto magistralmente Rosa Menduni e Roberto De Giorgi, che l’autore può colpire e osare, trasformando il sorriso anche in pianto o smorfia. Far sedere gli spettatori a tavola con i personaggi è fondamentale. E quasi sempre gli ospiti si accolgono borghesemente con un sorriso. Solo quando sono a loro completo e rilassato agio può iniziare il dramma della vita. Raccontare quindi l’oggi (un autore dovrebbe cercare d’essere un testimone del proprio tempo) usando gli stilemi della commedia (Meglio ancora della tragicommedia), in tempi come questi dominati da volgarità e cinismo, credo possa essere una scelta vincente.
Ho letto la sua critica alla spettacolo di Rosa Meduni e Roberto De Giorni, due miei autori amici e di cui mi compiaccio che li abbia apprezzati, ma sonno rimasto stupito sulla sua riflessione intorno alla “commedia”.
Dopo aver firmato quasi 100 regie di qualsiasi genere e scritto e allestito svariate commedie, mai come adesso vedo il rifiorire di questo genere e il suo alto impatto con il pubblico. Mi scuso, ma le sue parole intorno ai “generi”, mi hanno riportato agli esordi della mia carriera, avvenuta ormai negli anni ’70 con, il così detto, Teatro Sperimentale e le sue contrapposizioni al Teatro Ufficiale.
Se devo essere sincero, avendo partecipato a quella magnifica stagione, mi sembra oggi più affaticato e ripetitivo, nonché imitativo, il teatro di ricerca che il genere “commedia”.
D’altra parte gli italiani non hanno mai dato dignità alla comicità, esempio ne sono i premi che non vanno mai ad opere comiche. Lei ha visto, che so, un premio Ubu dato ad una commedia?
Comunque la invito a frequentare questo genere di spettacoli e vedrà che almeno il 65% dei lavoratori dello spettacolo vive su questo genere e altrettanto è il pubblico che ne fruisce. Non sempre queste opere finiscono con una morale, magari cercano un messaggio, sicuramente cercano di parlare della vita.
Salve Roberto,
intanto grazie a tutti per aver alimentato l’interessante discussione.
Roberto io non trovo desueto il ragionamento intorno al genere “commedia”, lo dimostrano anche i vostri commenti, ma soprattutto lo dimostra il fatto che il pubblico nella maggior parte dei casi è diviso: da un lato abbiamo chi si rivolge a un teatro più o meno serio (dentro al quale poi ci si divide ancora tra spettacoli da Stabile a teatri off e via dicendo), dall’altro lato abbiamo un pubblico che si rivolge maggiormente ai teatri commerciali e alla commedia, è chiaro poi che molte volte ci sono dei travasi, ma purtroppo io vedo ancora questi due blocchi (e invece a me piacerebbe unire i due mondi, infatti non esistono su TeC categorie di genere in questo senso).
Ora, il problema sta nel fatto che molte volte la commedia è la principale arma del teatro commerciale che strizzando l’occhio alla televisione non fa altro che replicare stereotipi comici che già affollano i nostri tubi catodici (anzi, ormai pannelli led:-)), e perdonatemi ma dal teatro mi aspetto qualcosa di diverso altrimenti me ne sto a casa. E purtroppo questa unicità rispetto al modello comico televisivo non è facile da trovare, insomma non è semplice assistere a una commedia innovativa nei linguaggi e nei contenuti e che abbia anche una certa profondità. Poi certo sono d’accordo che la commedia sia snobbata eccessivamente dalla critica, dagli operatori e dai premi, però è anche vero che sono veramente numerosi i cattivi esempi, io da parte mia cercherò di mettere in evidenza i migliori tentativi come ho fatto nel caso di “Farà giorno”
grazie ancora
Andrea Pocosgnich
Non penso ci sia un rifiuto della commedia “con la propria struttura drammaturgica dialogica e quell’insieme di relazioni tra personaggi ed eventi regolate da principi di causa ed effetto”, ma al contrario credo che il pubblico ama e ha sempre amato la commedia, al cinema e in teatro. Anche oggi il bisogno di questo genere è molto sentito dal pubblico, che è l’unico vero destinatario del prodotto culturale cinematografico e teatrale. Nella mia pur piccola esperienza di gestore di teatri che ospitano commedie di autori italiani , come il Teatro de’ Servi a Roma con i suoi 45.000 spettatori paganti l’anno, e 1.800 abbonati e il Teatro Martinitt a Milano con i suoi 30.000 spettatori paganti e 1.500 abbonati, ho sempre trovato un riscontro tangibile con il pubblico. Ma anche nell’universo del più conosciuto cinema, e non parliamo dei cine-panettoni, i film italiani più apprezzati al botteghino negli ultimi anni sono state le commedie di Roberto Benigni, Paolo Virzì, Paolo Genovese, Luca Miniero, ecc. E quanti altri autori più o meno conosciuti, più o meno bravi, e commedie più o meno belle, che sono in giro per l’Italia anche senza nessun Gianrico Tedeschi che la interpreta? Ne concludo che la commedia, scritta da autori italiani è sempre stata viva, poiché essa è nel DNA dell’italiano, è parte integrante del suo spirito di sopravvivenza alle nefandezze che subisce, per ridere e sorridere della vita, anche quando amara. Non è che solo qualcuno ha “troppo rapidamente detto che il genere della commedia era morta”, pensando di lasciarla “consumare in un angolo” per presunta “incapacità di raccontare il presente e di restituirci la complessità del reale”? Non è forse fondamentale interpretare, ascoltare e rispondere alle richieste del pubblico che è l’unico motivo per cui esistono il teatro e il cinema e per cui facciamo questo mestiere?
Non ho avuto la possibilità di vedere lo spettacolo di Tedeschi ma voglio comunque ringraziarlo
perché è uno dei pochi grandi attori che si mettono in gioco con la commedia contemporanea.
È strano che proprio in Italia, dove il cinema con “ La commedia all’italiana” ha visto grandi
successi, sia così difficile affermare questo genere anche in teatro. A mio parere questo
avviene perché è difficile cambiare la consuetudine dei produttori
e dei distributori di affidarsi ai “titoli di successo” di “rifare” il teatro e di un certo snobismo verso
gli autori italiani e troppa considerazioni verso quelli stranieri che spesso sono dei successi solo
perché all’estero c’è più attenzione al teatro
Lavorando da anni in teatro e praticando , con fatica, questo genere mi accordo quanto sia amato da
pubblico ma poco considerato dagli addetti ai lavori. Per quanto riguarda la qualità e dei testi degli
autori italiani che stroppo strizzano l’occhio alla televisione , dobbiamo considerare che viviamo un
momento culturalmente difficile (buio) e se è vero che per avvicinare la gente al teatro si ammicca ad un genere più
semplice, credo che accettare questo compromesso sia meglio che avere teatri vuoti o con pochi
intellettuali con i biglietti omaggio. E’ meglio vedere uno spettacolo teatrale sia pure non eccezionale che stare davanti alla televisione! A teatro ci si confronta, si parla e così magari si cresce e si migliora!
Ci fa molto piacere che la recensione di Farà giorno abbia innescato questa bella discussione tra drammaturghi e critica. Noi ovviamente siamo tra quelli che credono nella dignità della commedia e nella sua capacità di raccontare il presente: è un genere che amiamo a teatro come al cinema e che consideriamo vitale (in tutti e due i sensi: vivo e necessario).
E’ vero che forse più di altri generi la commedia è capace di adagiarsi in comodi schemi e che la televisione ha formato il gusto di una buona parte di pubblico in direzione della comicità pura, veloce, istintiva, da avanspettacolo. Molti spettatori purtroppo non si aspettano più una storia capace di coinvolgerli ma solo un contenitore di risate, e chi oggi scrive commedie deve confrontarsi con questa realtà che condiziona, a volte ancora prima di lui, anche teatri, registi e attori.
Da qui forse deriva una certa accresciuta diffidenza da parte della critica nei confronti della commedia, come se questa fosse per propria natura una rappresentazione troppo artificiale, insincera e ammiccante per poter partecipare al dibattito sul proprio tempo. Pesa in questo anche una tradizionale seriosità della cultura ufficiale italiana, che avrà pure le sue ragioni storiche, ma che rimane il maggiore ostacolo alla fuga della commedia dal ghetto di semplice e innocuo svago per il popolo in cui tendevano a rinchiuderla le visioni del mecenate e del censore, quando invece per sua natura è analitica, destabilizzante e “rivoluzionaria”.
Il punto non è certo sul semplice scatenamento della risata, ma sulla scelta di cosa utilizzare per far ridere, per quale ragione e in quale contesto. E cioè se la risata invece che essere fine a se stessa non sia invece un mezzo per allentare la tensione, riaccendere l’attenzione, accompagnare su per i gradini della storia, oppure ancora ciò con cui si evidenziano i malesseri del personaggio, il suo contrasto con l’ambiente, i suoi rapporti con gli altri personaggi, eccetera (gli amici drammaturghi che sono intervenuti sanno quanto costi rinunciare ad una battuta possibile per poter restare negli ambiti del proprio intento progettuale). Alla stessa maniera, rifiutare aprioristicamente il dramma o camuffarlo per non “turbare” la platea (o l’idea che se ne ha) può togliere potenzialità alla storia, smorzarla, bagnarne le polveri.
Tutto questo è parte di una grande tradizione di commedia/dramma che è anche italiana (e napoletana, ed ebraico-americana) ancora capace di offrire molto, se riesce a seguire in libertà il suo percorso restando indipendente dalle derive del comico televisivo. Per farlo però ha anche bisogno di essere sostenuta, insieme agli operatori del settore che se ne occupano, quanto le altre forme espressive. In generale, diciamo che il sistema teatrale italiano non premia il coraggio: né in chi scrive, né in chi mette in scena, né in chi paga il biglietto. Induce piuttosto ciascuno ad andare “sul sicuro”, cosa che quasi mai riesce ad essere appagante per tutti.
E’ bello però vedere su delle pagine di critica che, alla fine, c’è meno preclusione verso il genere commedia di quanto noi a volte temiamo quando ci mettiamo al lavoro. Non siamo ancora alle “larghe intese” (e per fortuna :-)), ma è molto confortante ed anche stimolante.
Salve avrei desiderio di rivedere questa commedia teatrale completa dove la posso rivedere grazie mille;))