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Celestini, Dante, Delbono. Il nuovo cinema di teatro

foto: www.nuovocinemalocatelli.com/
“La pecora nera” di Ascanio Celestini. Foto: www.nuovocinemalocatelli.com

Quando si pensa al cinema del secondo Novecento e si valuta la profondità espressiva che l’arte del secolo ha raggiunto nei meccanismi dell’evoluzione tecnica, si torna molto spesso alle parole del teorico per eccellenza, André Bazin, fondatore nel 1951 dei Cahiers du cinéma e animatore di tutta una generazione di cineasti che ha determinato la storia cinematografica contemporanea. Nel volume che raccoglie i suoi saggi critici, il fortunato Che cos’è il cinema? (Garzanti, Milano, 1973), Bazin articola la sua riflessione sul mezzo riproduttivo sviluppando un concetto che diverrà indispensabile; egli propose di guardare al cinema non come una riproduzione sostitutiva della realtà ma come opera che si «aggiunge alla creazione naturale», amplificando così la contiguità fra realtà e rappresentazione e andando incontro a un realismo capace di potenziare la tensione al vero, all’intimità dell’immagine primaria. Questo affondo fu a tal punto decisivo da innescare un processo creativo senza precedenti e da spingere artisti e intellettuali a letteralmente “imbracciare” la macchina da presa, affinché si potesse bucare l’immagine svelandone l’innocenza e la vitalità repressa, intrecciandone i reperti visivi alla propria fertile, intima immaginazione. Pier Paolo Pasolini, narratore e poeta, a sua volta e proprio per questo regista di cinema, fu su tali basi che in Empirismo eretico (Garzanti, Milano, 1972) teorizzò il suo Cinema di poesia, contemporaneamente alla sua maturazione di regista che dal 1960 con Accattone pretese di svelare la realtà a partire dai suoi meccanismi naturali, originari della condizione umana. La teoria di Pasolini scava nel linguaggio cinematografico indicando come esso si possa dire “primario”, affondato direttamente nella visione da trasferire e che non poggia dunque su un codice preesistente; il valore dell’immagine si presenta allora di nuovo, con Bazin, non come riproduttivo ma “produttivo”, in relazione a un destinatario che è «abituato a leggere visivamente la realtà», intendendo però con questa capacità di lettura visiva il passaggio successivo dell’interpretazione, quello che cioè rivela dell’immagine la composizione mai astratta e sempre concreta su cui impostare la volubilità di una ricerca significante.

foto: viacastellanabandiera.it
“Via Castellana Bandiera” di Emma Dante. Foto: viacastellanabandiera.it

Questi temi, di per sé afferenti a una riflessione teorica assimilata, sono invece molto utili per intendere le motivazioni di molti autori teatrali che hanno in questi anni realizzato il loro primo lavoro cinematografico, operando una scelta che pone decisive questioni linguistiche e insieme compositive nell’uso e nelle finalità del mezzo, decretando con il passaggio a riprendere una realtà in movimento, ma trasformata attraverso un’opera di mediazione ragionata in apparente contrasto con lo spettacolo dal vivo, il proposito non certo celato di indagarla con nuovi strumenti e maggiore carattere riflessivo.
Primo di una generazione fu Ascanio Celestini che nel 2010, dopo averlo presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, portò sul grande schermo il successo già teatrale La pecora nera; ora è la volta di altri due grandi interpreti del teatro italiano come Emma Dante, nelle sale con Via Castellana Bandiera quest’anno alla Mostra e Pippo Delbono, autore di Sangue, unico italiano in concorso all’ultimo Festival di Locarno.

"Sangue" di Pippo Delbono. Foto  www.pippodelbono.it/
“Sangue” di Pippo Delbono. Foto www.pippodelbono.it/

Le tre opere per immagini hanno già a prima vista una diversità originaria, perché se Celestini presenta una riscrittura dell’opera teatrale già di per sé nata in forma orale, nel caso della Dante si tratta di una sceneggiatura (scritta con Giorgio Vasta) tratta dal suo stesso omonimo romanzo, nel caso di Delbono invece la forma documentaria – unica fra i tre – permette di esulare da tali riferimenti e reperire materiale direttamente dalla realtà. Tre diverse necessità materiali, dunque, alla base. Ma forse a riunirle è un dato biografico che se per Celestini è ben celato nella costruzione narrativa di un mondo a sé stante autonomo dai propri caratteri identitari, per Dante e Delbono esplode senza preavviso e con particolare forza espressiva; Celestini mimetizza sé stesso nei panni di un “disturbato” rinchiuso in maniera coatta in manicomio, ossia dispone una struttura attraverso cui mascherare in elementi di realtà la propria metaforica condizione d’artista, Dante e Delbono portano in superficie il proprio disturbo originario recandosi alla radice che li compone: il luogo materno per l’una, la madre in carne e ossa per l’altro. Ma c’è per tutti, nei contenuti, una necessità di rintracciare l’ombra lunga che li fa artisti, cercatori al setaccio di elementi cardinali dell’esperienza umana tramite i quali capire, capirsi, sapersi dire ad altri.

Il dato però più evidente che richiama la loro provenienza teatrale è dettato dalle scelte stilistiche e linguistiche. Nelle loro opere si rende più chiaro ancora l’assunto pasoliniano che l’operazione dell’autore di cinema sia un’invenzione «prima linguistica e poi estetica», il fascino del mezzo è allora un’invenzione pura di tridimensionalità – palese nelle inquadrature di Celestini che ruota attorno alla scena o la sovrasta, alla maniera di De Palma o Von Trier –, un allargamento della visione teatrale quasi compulsivo e mosso da morbosa curiosità che la camera a mano rende quasi voyeuristica, innescando un’indagine della possibilità espressiva a invocare l’esplosione metonimica del particolare nell’ambiente sconfinato, ossia dentro di sé, dove la propria opera è contenuta, dov’è impresso il contenuto organico già nello stato di forma, visione prima di essere cinema. Per essere più chiari, i tre autori di film diversi ma tra loro connessi cercano di afferrare dal cinema tutto ciò che il teatro non permette: quell’inquadratura vicinissima e tremolante, rubata ai lineamenti umani – nel caso della Dante addirittura si genera dall’unico spazio impossibile del teatro, una sorta di sguardo da dietro le quinte, mentre Delbono la svolge tutto in soggettiva fino a far saltare i limiti della rappresentazione, “producendo” l’istante esatto della morte di sua madre – è esemplare del desiderio necessario di dare forma a quel che in teatro è evidente solo negli “a parte”, ossia a tutto ciò che extradiegetico è fuori dall’inquadratura.

Ma ancora è dal punto di vista più espressamente creativo che l’impianto si rende lampante. Il passaggio al cinema è di tre registi drammaturghi, ossia coloro che mettono in scena opere autoriali nate dalla propria ideazione scritta in ogni caso anche se orale, pensata per parole, quindi in un codice predefinito e condiviso già in quanto tale e non come le immagini che appartengono alla realtà in forma base, non drammatizzata. Questa necessità si esplica dunque con lo spostamento in un altro linguaggio segnico per determinare la composizione dal pretesto al testo e potenziare l’indagine del proprio vissuto, svelando una verità che il posticcio teatrale sa invece mascherare: per Celestini dare forma visiva al doppio che permea di lucidità storica la sua parola fiabesca, per la Dante mettere in un’inquadratura fissa di situazione il proprio teatro invece materico e irredento, per Delbono attraverso quella piccola camera che definisce «il suo occhio lucido» vedere e rivedere la morte, illudendosi di averla così arrestata, per ognuno dunque affascinarsi dell’onirico cinematografico prodotto dal fondo dei propri occhi ma, affidando all’immagine l’immediatezza che va dall’esperienza all’espressione, affermare di nuovo senza dubbi o pentimenti l’urgenza intima del proprio teatro.

Simone Nebbia

Questo articolo è apparso sul numero . Per gentile concessione.

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