Scrivo complice. Lo so. Perché di questo nuovo corso dell’Argot Studio chi scrive è stato parte attiva per anni, l’ha ereditato in varie forme tutte da inventare e di volta in volta diverse, l’ha lasciato nelle mani di un gruppo che da quegli anni, gli ultimi degli anni Zero, ha continuato un percorso di affermazione nel panorama capitolino per dare lustro agli ormai oggi 28 di vita, di teatro. Combattendo perché davvero siano sinonimi. Da quest’anno poi lo spazio – con la direzione di Francesco Frangipane e Tiziano Panici – ha fatto un salto notevole incrociando i flussi con il Teatro dell’Orologio di Fabio Morgan e con l’opera di un operatore “straniero”, Luca Ricci di Kilowatt Festival, dando vita a una stagione congiunta dal nome Dominio Pubblico e dalle intenzioni molto chiare di diventare un centro propulsore di cultura teatrale, lì dove l’assenza di spazi adeguati alla richiesta spettacolare sta lasciando una disgregata desolazione. Proprio all’Argot inizia questa stagione in cui rivedremo molti spettacoli passati quasi distrattamente negli ultimi anni a Roma, recuperati e riportati alla luce con attenzione appassionata, quella di una reale direzione artistica. Ad aprirla, uno spettacolo del 2010 passato a Short Theatre un paio di anni fa, scritto da Patrizia Valduga e ideato per la scena da Valter Malosti, interpretato dall’attrice Premio Ubu Federica Fracassi: Corsia degli incurabili.
A piedi nudi comincia, questa stagione. Lo fa a partire dal foyer dove – ma chissà se solo quella sera – mi pare di scorgere tante persone ignote, tanti incuriositi forse dal battage pubblicitario che l’occasione ha saputo sviluppare. Si entra a fatica, tale è la folla che stasera ha voglia di essere qui nonostante la scomodità imposta da una platea gradinata di capienza insufficiente; si raggiungono le poltrone un tempo rosse e ora di un nero squadrato mentre Federica Fracassi è già pronta in scena, assente e immobilizzata sulla sua sedia per invalidi fa giacere i suoi piedi nudi con inerzia, quasi ipotizzando che scarpe, come quelle rosse col tacco elegante lasciate di fronte, non saprà indossarne più. C’è attorno un’atmosfera polverosa, sabbiosa, in cui la sua staticità si installa come un residuo di umanità perduta, avvilita dalle catene che stringono la sua psiche, la sua aderenza al mondo che inesorabile la allontana.
Patrizia Valduga – compagna per ventitré anni del celebre poeta e critico teatrale Giovanni Raboni – è una poetessa molto intensa, i suoi versi reclamano una vitalità soppressa che l’uomo – l’essere umano al centro della sua poetica – avverte contemporaneamente all’abbandono al dolore, determinando così una conflittualità sofferta simulacro stesso dell’esistenza. Corsia degli incurabili, testo teatral-poetico del 1996, pone un malato in una corsia di ospedale, comprimendo la sua percezione in un punto di osservazione bloccato, da cui valutare, misurare sé stesso e la relazione con il contesto sociale di appartenenza, il paese in cui vive, la condizione di dolore in cui si trova a “dover” vivere, come se il suo corpo e l’organismo più grande in cui svolge le sue funzioni fossero colpiti dal medesimo morbo.
Malosti è un regista con uno spiccato senso del contrasto, pone una centralità con cui molto spesso innesca un conflitto di sonorità sinistre e cupe, di luci sofferenti e invasive che ingabbiano l’ammalata nelle pieghe del testo versificato e nell’invalidità astringente. I suoi interventi competono all’attrice il primato della scena, un faro a terra la attraversa in obliquo, quasi la trafigge e le strappa il profilo proiettandone l’umbratile deformazione sul fondale, assieme all’altissimo schienale della sedia; alle sue spalle si accendono a intervalli due neon a terra, di colori sempre diversi alle diverse sfumature liriche come coro estremizzato dell’invettiva. Il testo con cui si misura cerca equilibrio fra un lirismo atemporale e un carattere invece di forte attualità, vocalizzando una disperazione non redenta e producendo un clima quasi spirituale, perimetro sacrale di una santa ammorbata, martire di sé stessa. Nelle sue distorsioni, nella sua figura è Federica Fracassi, presenza quasi ectoplasmica, accesso poroso di parole che sembrano attraversarla e uscire per mezzo del microfono fisso, barriera funzionale all’amplificazione e tramite medianico. A volte sembra soffrire l’alterazione della regia che quasi la sovrasta e la limita, ma sa venir fuori in una figura femminile iconizzata su cui si accentra il corpo intero della potenza espressiva, capace di virare il suo grido più teso su toni più caldi verso il finale, là dove anche le musiche, anche le luci troveranno una piccola ma decisiva catarsi.
Dominio Pubblico è agli esordi. L’Argot e l’Orologio saranno – con Tordinona e qualche altra nuova e bella esperienza – al centro di una stagione determinante per i nuovi equilibri del teatro romano. Il suo cartellone è frutto di un lavoro caparbio costruito giornalmente, ma anche di un difetto con cui i teatri più grandi hanno bloccato certi progetti artistici, quella mancata fiducia in progetti che potevano aver vita oltre le fugaci apparizioni precedenti. Ora il difetto si è esteso, molti di quei teatri neanche ci sono più. Resta per noi, allora, unicamente la fiducia nell’esistente, resta di dare forma a un desiderio oltre le barriere della marginalità affamata. Si può immaginare un sistema teatrale senza teatri? Si può accogliere una proposta e potenziare la voce di ciò che resiste? All’orizzonte di ciò che non appare, il mare trascina gentile qualche scialuppa di salvataggio.
Simone Nebbia
visto in ottobre 2013 al Teatro Argot Studio di Roma
CORSIA DEGLI INCURABILI
di Patrizia Valduga
uno spettacolo di Valter Malosti
con Federica Fracassi
costumi Federica Genovesi
scelte musicali, luci, spazio scenico Valter Malosti
suono e programmazione luci G.u.p. Alcaro
una produzione Teatro di Dioniso / Residenza Multidisciplinare di Asti
in collaborazione con Teatro i / Festival delle Colline Torinesi