Il teatro senza testo, o meglio, il teatro che non abbia come punto di partenza il testo e che ambisca a definire un proprio linguaggio autonomo è una delle utopie più affascinanti del Novecento: utopia teorica con le avanguardie storiche nei primi trentanni e indefessa applicazione nella seconda metà del secolo a opera della ricerca teatrale di mezzo mondo. Senza testo non vuol dire senza parola, questa in teatro ha sempre avuto un ruolo centrale: anche quando scomposta, destrutturata, improvvisata, scritta sulla scena a seguito di improvvisazioni, partorita sulle tavole del palcoscenico o fuori da esso in happening e performance. Per Artaud la parola doveva essere costituita da materia onirica, per Grotowski il testo era una sorta di trampolino. Se escludiamo la danza (o il mimo) e alcune ardite teorie futuriste, la parola è stata raramente ostracizzata in teatro, più in generale la voce umana ha trovato meno detrattori di quanti ne avesse l’attore. Un indomito sperimentatore come Gordon Craig nei suoi scritti più estremi ambisce a eliminare l’interprete umano ma non la sua voce: «Quando dico voce, alludo alle parole parlate e a quelle cantate, in opposizione alle parole da leggersi». (E. G. Craig, Il mio teatro, Feltrinelli, Milano, 1971)
Tentare dunque di raccontare una storia, per altro conosciuta, senza le parole e senza il conforto di altri codici quali la danza e il mimo è una scommessa quasi sempre persa in partenza. Anche in questo sta l’eccezionalità del Woyzeck di Josef Nadj (prodotto nel 1994), nel mutismo degli interpreti che diventa un piano di interpretazione ulteriore del capolavoro di Georg Büchner.
Il festival Contemporanea 2013 di Prato ha avuto anche la perspicacia di programmare una serata dedicata al drammaturgo tedesco in cui è stato possibile confrontare l’assenza della parola del Büchner di Nadj con il suo diretto contrario, ovvero con il teatro di Claudio Morganti, nel quale la parola del suo Mit Lenz è non solo veicolo primario del plot, ma anche strumento di destabilizzazione della scatola scenica e dei meccanismi narrativi stessi; così lo spettacolo si trasforma in rito.
Certo, Nadji non rinuncia del tutto alla danza, anche perché ogni cosa è puntualmente coreografata nei minimi dettagli, ma la leziosità del gesto pulitissimo, quasi danzato appunto, si mescola con estremo equilibrio alla giocosa clownerie, alle ritmate azioni quotidiane, ai numeri da circo, tutto con grande leggerezza e senza proferire una frase del testo; solo di tanto in tanto (ma è cosa rarissima) si lasciano andare a dei versi, o a qualche battuta in francese.
Eppure nel polveroso carillon di legno in cui si svolge questo Woyzeck vi è proprio quel frenetico brulicare che si muove nelle pagine del testo. L’umanità piccola e perduta di Büchner trova impeccabile rappresentazione in questa dimensione altra in cui il reale e il surreale si fondono senza soluzione di continuità. La melodia di un pianoforte sgangherato, dappertutto legno sporco, vernice strappata, il marrone, la terra, l’usura; uomini-fantoccio unti di argilla, sedie che pendono da un lato, un tavolo fatto con una grondaia, biciclette realizzate con materiale di risulta e catenacci di contenzione. È un universo di artigianato povero, fantasioso e anti-reale nel quale le avventure del soldato che per tirare a campare accetta di fare da cavia a uno scienziato, vengono distillate perdendo il proprio scheletro narrativo, ma trasmettendo l’ineffabile, il palpitare della vita e la sua negazione. Un giovane spunta da dietro una porta alla quale era aggrappato, come se il personaggio nascesse in scena viene vestito da soldato (un Woyzeck kantoriano?) dopo un rapido lavaggio con la paglia. Nulla è come appare, ogni cosa può nascondere il proprio doppio irrazionale e la gelosia del testo, in questa messinscena per attori muti e oggetti poveri, altro non è che un cuore d’argilla manipolato dalle mani grezze di un inetto. Sarebbe un inutile gioco e dunque una forzatura ricercare personaggi e intere fasi del testo: sotto la coltre di polvere, tra i lazzi giocati dagli abili performer di Nadj, si sente, nettissimo, l’odore, l’atmosfera, dell’incompiuto di Büchner.
Andrea Pocosgnich
twitter @andreapox
vai a Paso doble – A Contemporanea Festival 2013 Morganti e Nadj per un doppio Büchner
Visto al Teatro Magnolfi di Prato per Contemporanea Festival 2013
sfoglia anche la gallery in b/n – foto di Layos Somlosi
WOYZECK, o l’inizio del capogiro
coreografia / choreography Josef Nadj
con / with Guillaume Bertrand, Istvan Bickei, Denes Debrei, Samuel Dutertre, Peter Gemza, Josef Nadj, Henrieta Varga
musiche / music Aladar Racz
designer luci / lighting designer Raymond Blot
staff tecnico in tournée / technical staff on tour
direzione tecnica / technical direction Alexandre De Monte
luci / light Lionel Colet
Caro Andrea,
è una bella recensione, complimenti. Trovo soprattutto interessante il paragrafo finale, quando descrivi l’uso poetico dell’oggetto povero e il collegamento con l’artigiano inetto che forma il cuore fragile della messa in scena. La metafora mi ha fatto pensare a un allestimento voluto da un cattivo demiurgo, che ha creato un mondo dove c’è il male e la follia o perché lo ha voluto, oppure perché non è riuscito a fare di meglio. E questo è in totale convergenza con le convinzioni filosofiche di Büchner (vedi gli argomenti contro la teodicea spinoziana formulati da Payne ne “La morte di Danton”).
Approfitto però di questo piccolo spazio per chiarire perché sono rimasto un po’ deluso dallo spettacolo. Fondamentalmente, trovo che il limite del lavoro di Nadj sia la sua unilateralità. Dell’universo poetico di Büchner vengono raccontate la follia, “l’umanità piccola e perduta” di cui Woyzeck (ma anche Leonce, Lenz, Lucile, ecc.) è un lampante esempio, il senso di disillusione e di caos che si respira spesso nelle sue opere teatrali, insomma solo le connotazioni “negative”. Mentre non viene mai evidenziato – nemmeno per nascoste allusioni (e scusa per l’ossimoro) – l’aspetto “costruttivo” del suo pensiero. Non ho riconosciuto la passione che emerge da “Il Messaggero Assiano”, né il metodo scientifico che sottende spesso alla sua creazione estetica (ricorderai che Büchner era studioso di anatomia e di medicina), né infine il suo mai spento interesse per la politica, che continuo a vedere nelle lettere scritte anche dopo la sua fuga verso Strasburgo. Il risultato è uno spettacolo innegabilmente bello sul piano scenico, attoriale e coreografico, ma che impoverisce l’universo complesso dell’artista-intellettuale tedesco a livello filosofico e drammaturgico.
Ammetto che la mia è una riserva che non ha ragione di essere. Nadj ha voluto riscrivere il “Woyzeck” ed esprimere la sua personale visione poetica, scegliendo quello che gli era più utile recuperare attraverso il suo confronto dialettico con Büchner. Tuttavia, poiché le riscritture che si possono dare sono potenzialmente infinite, secondo me egli avrebbe potuto – se non dovuto – trovarne una che desse conto di tutto e mettesse in risalto quello che più gli sta a cuore. Del resto, si riesce a sottolineare meglio una parte collocandola in un chiaro insieme.
Buon lavoro e a presto. Un caro saluto,
Enrico.